Si è soliti dire che la modernità sia sorta in sequela diretta dall’Illuminismo. Da un punto di vista generale, l’affermazione è vera. La ragione astratta, esaltata dai liberi pensatori, è stata sostanza e riferimento intellettuale dell’evolversi del moderno, fino alla dissoluzione nella post-modernità liquida. Tale semplicistica definizione ha indotto troppi critici a interpretare in modo monolitico il movimento dei Lumi che, al contrario, è stato eterogeneo e nient’affatto alieno dalle polemiche interne. Lo testimonia la recente pubblicazione di un libro misconosciuto del filosofo scozzese David Hume, Contro Rousseau, da poco nelle librerie per Bietti editore (per ordini: 02/29528929, euro 14,00). Il volume è curato da Spartaco Pupo, docente di Storia delle dottrine politiche dell’Università della Calabria e traduttore dell’opera omnia del pensatore empirista.
Questa pubblicazione porta all’attenzione dei lettori la disputa, indotta da ragioni caratteriali oltre che da motivazioni speculative, che vide contrapposti due maîtres à penser della modernità, Hume e Rousseau. I due, per un certo lasso di tempo, furono amici e si frequentarono, almeno fin quando l’ombroso ginevrino non cominciò ad accusare David di avere cospirato ai suoi danni. La risposta di Hume alle infamanti accuse è contenuta nelle pagine di questo agile libretto che raccoglie, al fine di contestualizzare storicamente il conflitto tra i due, lettere inedite dello scozzese, di Rousseau, di D’Alambert e Walpole. Particolarmente informato è il saggio introduttivo di Pupo, mirato a rilevare come, al di là della polemica occasionale, i due filosofi fossero agli antipodi anche per scelte ideali. Nelle loro opere è possibile individuare due momenti opposti dell’Illuminismo.
Fu d’Alambert che, constatato lo stato di prostrazione di Hume in conseguenza delle diffamazioni fatte circolare dallo svizzero, gli suggerì di dare alle stampe la sua versione dei fatti, accompagnandola con la corrispondenza intercorsa in argomento con il filosofo contrattualista. Il libro uscì a Londra nel 1766, dapprima in francese e, un mese dopo, in inglese. L’anno seguente, venne pubblicata a Venezia l’edizione italiana del volumetto, ad opera dello stampatore Luigi Favini. Da allora, non si ci sono più state ristampe del libro nella nostra lingua, il che rende davvero meritoria la scelta di Bietti. Si deve sapere che il testo in questione aprì un ampio e partecipato dibattito nel mondo della “Repubblica delle lettere”, dapprima in Europa e poi in Italia. Voltaire intervenne prendendo le parti di Hume, come del resto aveva fatto Adam Smith, mentre a Milano i fratelli Verri, firme del prestigioso Caffè, vissero una divisione eclatante. Alessandro si schierò per lo scozzese, mentre Pietro prese le parti del “rivoluzionario” Rousseau. Il pensatore elvetico, seguendo l’accorto consiglio di amici e confidenti, non rispose, come inizialmente avrebbe voluto, a David, ma lasciò l’Inghilterra imbarcandosi a Dover con l’amato cagnolino di famiglia e Thérèse Le Vasseur, fedele governante e concubina, da cui aveva avuto cinque figli affidati all’ospizio dei trovatelli. Di questa donna Hume scrisse “lo governa nel modo più assoluto[…]In sua assenza, è il cane ad acquisire lo stesso ascendente” (p.19). Il che la dice lunga sull’uomo Rousseau.
Come si incontrarono i due pensatori, come nacque la loro amicizia? Lo chiarisce il curatore. Fece da intermediaria per il loro incontro la contessa di Boufflers, amabile frequentatrice dei salotti parigini ed intima del principe de Conti. La contessa, aveva scritto più volte al pensatore empirista, riferendogli dei problemi (anche economici) che Rousseau aveva in Francia, in conseguenza della rottura, avvenuta nel 1757, con il mondo dei philosophes. Nello stesso periodo, Hume ricevette una richiesta di Lord Hertford, che lo avrebbe voluto suo capo di gabinetto a Parigi. Naturalmente l’invito nasceva da un suggerimento della Boufflers. In ogni caso, in Francia, David mise in mostra capacità politico-diplomatiche rilevanti, accompagnate dalla fama di essere brillante conversatore. Di salotto in salotto, le bon David incontrò Rousseau il 20 dicembre 1765. Un anno dopo si imbarcò con lui a Calais per far ritorno in Inghilterra. Il ginevrino all’inizio del soggiorno londinese, risiedette in un alloggio, procuratogli da Hume, a Buckingham Street. Il suo arrivo suscitò gran clamore nel mondo della cultura anglosassone: fece visita a Rousseau addirittura il duca di Brunswick, ma ben presto lo svizzero volle recarsi in una residenza di campagna, a contatto con la natura. Dopo prolungate ricerche accettò “la proposta dell’amico Richard Davenport di una residenza provvisoria a Wootton Hall” (p. 21).
Inopinatamente, sulle pagine del St. James’s Chronicle apparve una lettera firmata “il Re di Prussia”, in realtà opera dello scrittore Walpole, in cui il presunto Re metteva a disposizione del filosofo svizzero il suo regno. Una presa in giro, un divertissment, dovuto al fatto che l’uomo di lettere non aveva digerito l’accoglienza trionfale riservata a Rousseau a Londra. Il ginevrino pensò che lo scherzo fosse stato ordito da d’Alambert, con la complicità di Hume. Scrisse piccato all’amico scozzese di averlo “condotto in Inghilterra apparentemente per procurarmi un asilo, ma in realtà per disonorarmi” (p. 22). I due uomini erano davvero molto diversi. Hume compose, poco tempo prima della morte, un’autobiografia di sette pagine che nulla ha a che vedere con le magniloquenti Confessioni dello svizzero. Questi amava la solitudine,“fuggitivo” da sempre proteso nella ricerca di un altrove culturale e spaziale. Scontroso e passionale, era assai lontano dalla sobrietà spirituale di Hume. Tale tratto psicologico, connotò l’indole pacata e moderata dello scozzese che, in politica, fu paladino del conservatorismo liberale.
Hume ebbe un approccio realistico ai problemi socio-politici, moralizzante e normativo fu, al contrario, quello di Rousseau, per non parlare della loro diversa considerazione del ruolo della ragione. Per lo scozzese, in ultima istanza, la ragione doveva essere in grado di mettere in discussione se stessa, mentre per Rousseau essa era vera e propria “malattia”. Contro il realismo del primo, il secondo teorizzò un contrattualismo rigido ed antigarantista. Hume ribatteva che lo Stato “non era nato a tavolino[…]ma era il prodotto di un’evoluzione degli artifici escogitati dagli uomini nel corso del tempo per realizzare interessi reali e particolari” (p. 38). Diversa, altresì, l’ idea di nazione: mente la nazione rousseauiana “coincideva con la comunità politica democratica” (p. 47), per Hume il sentimento di nazionalità è risultato della simpatia, del contagio reciproco che conduce progressivamente a fenomeni di influenza e di identificazione tra i membri di una medesima comunità.
Due uomini assai diversi: Hume rappresentante della “civiltà della conversazione”, Rousseau primo “altrista” di un’Europa che stava perdendo la propria anima.
*Contro Rousseau di David Hume, (Bietti editore per ordini: 02/29528929, euro 14,00).