L’unica rubrica che spiega e presenta la poesia italiana attuale anche ai non addetti ai lavori. Solo autori contemporanei di cui non sentirai mai parlare a scuola, o all’università. Per comprendere il nostro tempo partendo dalla scrittura poetica.
In un bel saggio sul declino della poesia americana, Mark Edmundson, con quel linguaggio diretto e senza fronzoli caratteristico della critica letteraria di lingua anglosassone, attacca a testa bassa tutto il gotha dei nuovi poeti della sua nazione. Contrariamente ai nostri critici e versificatori, avvezzi all’ignavia politicamente corretta del “non faccio nomi, ma”, egli distribuisce colpe e meriti chiamando in causa apertamente, additando con nomi e cognomi. La sua tesi è molto chiara: oramai i poeti si sono chiusi a riccio in un universo personale, autoreferenziale, idiosincratico, e atemporale, dove il corso dei tempi non trova cittadinanza. Intrapreso il disperato inseguimento di una voce personale, che li contraddistingua all’interno del vasto mare magnum della produzione poetica, si sono dimenticati di scrivere pensando al resto dell’umanità. Creano invece versi su sé stessi e per sé stessi, senza andare alla ricerca, all’interno dell’esperienza personale, di un’illuminazione che possa gettare nuova luce anche su ciò che hanno in comune coi propri simili. In estrema sintesi Edmundson rimpiange, nella nuova poesia americana, la mancanza di una coralità whitmaniana, dove l’individualità si spande e trova hegeliana realizzazione in una dimensione più vasta, collettiva, addirittura nazionale, un “noi” che sia anche un’essenza comune (“Celebro me stesso,/ E ciò che immagino tu immaginerai/ Perché ogni atomo che appartiene a me appartiene anche a te”, citando il poeta di Foglie d’erba).
Lasciando perdere i lidi d’Oltreoceano, che meriterebbero una discussione a parte, ed evitando la ricerca di inutili universalismi che si ridurrebbero unicamente a una presa di posizione dal punto di vista dell’uomo bianco occidentale, come giustamente fa notare Ben Lerner in Odiare la poesia, Sellerio Edizioni, 2017, veniamo al discorso italiano. Qui nel Bel Paese, noi – società con una storia, contrariamente all’America – ancora scontiamo secoli e secoli di petrarchismo, ovvero ripiegamento poetante sull’individualità, oltre a un endemico senso di frammentazione nazionale. Manca insomma in Italia un orizzonte comune, al di là delle divisioni regionalistiche, i campanilismi, il Nord e il Sud, il paese e la metropoli, la destra e la sinistra. Pertanto, in Italia, la dimensione interiore e personale ha sempre avuto terreno fertile, molto più di qualsiasi spinta civile. Un raro caso contrario in tal senso è costituito dall’ultima opera di Matteo Fantuzzi, La stazione di Bologna, edita da Feltrinelli, uscita nella collana digitale dello ZOOM. Per chi non lo conoscesse, il marchio di editoria digitale della nota casa editrice propone, grazie alle nuove tecnologie, dei brevi testi che non potrebbero altrimenti trovare collocazione nel classico panorama editoriale cartaceo.
In questo breve poema di meno di cinquanta liriche, come ben si evince fin dal titolo, il poeta ripercorre da un punto di vista endogeno l’atmosfera umana, politica, e sociale di quel 2 agosto 1980, giorno della strage alla stazione di Bologna. Ci sono le persone comuni (una vecchia che distribuisce caffè ai soccorritori, una coppia di giovani sposi), i politici (Pertini e Berlinguer), i loro sentimenti e le sensazioni, da quelli più riposti, a quelli che invece li coinvolgono più direttamente nello spirito diffuso del momento. Una tale operazione risulta ancora più encomiabile alla luce del fatto che Fantuzzi, per quanto affermato, è ancora un giovane che a quel tempo aveva appena un anno e, per sua stessa ammissione, non ha ricordi vivi della terribile giornata. Il suo lavoro preparatorio è consistito quindi nella consultazione delle fonti messe a disposizione dai parenti delle vittime, oltre che dai giornali dell’epoca. Già in passato, l’autore aveva dato prova di grande attenzione per alcuni eventi particolarmente rilevanti della storia nazionale. Come a esempio nella sua silloge di esordio, Kobarid (Caporetto, appunto), caratterizzata dalla costante della sconfitta, dalla perdita di una battaglia non solo storica ma anche interiore. In questo nuovo episodio della sua produzione abbiamo invece la distruzione improvvisa di un equilibrio preesistente, lo scoppio della paura al centro del cuore di Bologna e di ognuno di noi. Lo scarto fondamentale tra i due momenti della perdita avviene però in seguito alla strage: l’autore stavolta dedica molti versi alla ricostruzione della città, resa possibile dalla fratellanza, affinché ci sia un nuovo inizio. Incerto sì, forse altrettanto doloroso, ma contraddistinto dal disperato desiderio di ricominciare a vivere. C’è da dire che una tale attenzione per momenti della storia di molti decenni addietro, quando gli stessi autori che ne trattano non erano ancora nati, o erano appena infanti, pare essere molto diffusa oggigiorno. In ambito narrativo, giusto per citare due casi eclatanti, si potrebbero nominare Marco Missiroli con Atti osceni in luogo privato, ambientato a cavallo del ‘68, e Crocifisso Dentello con La vita sconosciuta che invece racconta gli anni ‘70 della lotta armata e la delusione successiva di chi ha visto naufragare quegli ideali. Seppur a livello poetico, Fantuzzi potrebbe essere ascritto a questa trasversale corrente letteraria. Ma non è certamente questo l’aspetto più importante di La stazione di Bologna. Piuttosto è interessante e meritoria la volontà di rilanciare una poesia civile (“manifesto civile”, dice giustamente Eleonora Rimolo del libro) che sia anche pensata per essere fruita dal più vasto pubblico possibile. È qui che sta la grande forza dell’opera, nella limpidezza espressiva che non scade mai nella mediocrità. Il progetto è certamente molto ambizioso, eppure il poeta lo porta avanti senza cadute di tensione stilistica, o sviolinate retoriche, con un linguaggio terso e piano, a tratti tendente alla prosa, comunque toccante. Si potrebbe in tal senso dire che Fantuzzi risulta degno erede dell’insegnamento di Simone Cattaneo, probabilmente il più grande poeta degli ultimi trent’anni, ovvero il rifiuto di qualsiasi lirismo fine a sé stesso. Ed effettivamente, questo testo non presenta la minima traccia di quel poeticume tanto dileggiato da Cattaneo. Allo stesso tempo, come in quest’ultimo, seppur declinata in modo diversissimo, si riscontra quella attenzione per il mondo circostante che, se in Cattaneo si traduce in frattura e solitudine, in Fantuzzi diviene invece dimensione civile che, come scrive sempre la Rimolo, ci induce a prendere coscienza del nostro essere “individui sociali”.
La stazione di Bologna è un testo che non si può perdere, se si è estenuati dalla poesia del vuoto sperimentalismo, dell’ermetismo ombelicale, e dello stanco gioco linguistico. Fantuzzi ci aiuta proprio in questo, a riscoprire una bellezza poetica nel linguaggio, se si vuole, anche banale della quotidianità. Un linguaggio che non si rivolge a iniziati, una poesia insomma non solo per poeti e addetti ai lavori, ma del popolo e per il popolo, che torni a parlare di noi, della nostra storia, di questa contemporaneità infame e incredibilmente umana. Questo è appunto il più grande merito del poeta: non essere vittima del suo fare poesia, evitare per dirla sempre con Cattaneo, di “morire soffocato dalle parole”.
Si è detto prima, citando il critico americano, che spesso i poeti incorrono nella deriva di raccontare storie personali, prive di qualsiasi legame col resto delle esperienze dei propri lettori e, più in generale, dell’uomo. Il tutto, peraltro, come se la Storia fosse morta e gli eventi circostanti, dal terrorismo all’inquinamento, non li toccassero minimamente. In verità, anche quando non arrivano a chiudersi tanto rispetto alla realtà circostante, ma si limitano a parlare di elementi meno legati all’immediatezza bruta del mondo, come i sentimenti di amore, tristezza, solitudine e quant’altro, considerati per dir così nella loro astrattezza, è comunque ben difficile trovare un versificatore che si distingua. Una poetessa che certamente contravviene a questa tendenza, tra i poeti più attivi al momento sulla scena nazionale, è Rita Pacilio. Si veda in particolare Prima di andare, edito da La Vita Felice, casa editrice per cui la Pacilio dirige anche una collana, quella degli esordienti. Stando alla seconda di copertina del testo, dove sta scritto che la poetessa “confessa la vita di una donna anziana che, grazie al ricordo del suo amore, tiene in vita la memoria del mondo”, sembra proprio che la storia alla base di questo testo sia decisamente peculiare, probabilmente impossibile da contemplare per una certa sensibilità quale per esempio quella giovanile. Al contrario, buona parte dell’amore che la Pacilio descrive attraverso il ricordo di un’anziana donna – che evidentemente non è lei, come prova l’anagrafe – è un tipo di sentimento che travalica le stagioni della vita e le unisce. Basti leggere quella che è probabilmente la più intensa tra le liriche contenute nel testo:
Quando sono qui non ho parole
lascio fuori il mio uragano
incustodito, lascio a casa
la rabbia di cenere e carbone,
la tua bestemmia
pronunciata in basso, fino allo scorno
persuadendo il vizio dell’amore.
Le ore e i giorni ci portano contro
ci scontentano la vita, il letto,
questa miserabile ombra che scende
prima del tramonto, prima dell’inedia.
Certo non lo fai apposta ad andare via
fanno così le persone anziane, senza
speranza, fanno come te quando ti bagni
gli occhi e poi scompaiono naturalmente.
E gli esempi potrebbero moltiplicarsi sempre per quel che riguarda l’amore (“Accade un furore per tutta la notte/ sillabando il tuo nome”), fino a improvvisi ed estemporanei passaggi dove l’acutezza dell’occhio che scruta trova formidabili soluzioni poetiche di descrizione (“L’ombra della gente si arresta disperata/ quasi sempre è triste, frenetica/ senza sorriso, né faccia/ […] addosso porta fretta distratta,/ si muove con sospetto/ sembra un rapace zoppo e pure cieco/ abbandona vergogne, fiducia, nomi,/ sfugge all’impegno chiudendo gli occhi/ svincolando nell’abisso con un tonfo./ La gente non si interroga/ recita il compito, la busta della spesa,/ rapida nelle stagioni lascia/ crepe per le vie”).
La verità è che un testo come questo non lo si può analizzare, lo si deve sentire. Si potrebbero continuare ad affastellare esempi della sua forza poetica, ma si tratta di una bellezza che non può essere spiegata. L’unica considerazione che si possa muovere è che la Pacilio è una delle ultime poetesse a padroneggiare e potersi permettere un respiro lirico nel tempo di trionfo del prosastico. Si consiglia pertanto la lettura di Prima di andare a chi abbia nostalgia di una dimensione sentimentale e appassionata oramai carente, o smaccatamente di maniera.
A chiudere idealmente il trittico dei poeti noti, è ineludibile inserire il più atipico, il caso a parte, il fenomeno più internazionale della poesia italiana, Franz Krauspenhaar. Figlio di madre italiana e padre tedesco, Krauspenhaar comincia a scrivere poesia in età già adulta e solo dopo aver pubblicato alcuni tra i dieci romanzi che annovera al momento in catalogo. Della sua scrittura in versi asserisce sia parallela a quella portata avanti nelle opere narrative. Semplicemente, qualcosa di ciò che viene redatto in prosa necessita di essere detto nuovamente, in altro modo. Una mole produttiva in versi, quella di Franz, davvero considerevole. I suoi ultimi lavori sono stati tutti pubblicati grazie al supporto di un grandioso amante della poesia quale Marco Saya, della omonima casa editrice. Già i titoli dei tre volumi potrebbero essere considerati un esempio di genialità, da Biscotti selvaggi, passando per Le belle stagioni, fino ad arrivare all’ultimo, Capelli struggenti. Una produzione vasta, si diceva, quella di Krauspenhaar, torrenziale come quella di Bukowski, ma stilisticamente curata in modo certosino, quasi ci fosse dietro un maestro alla Houellebecq. E, in effetti, Franz è l’autore italiano più vicino alla grande poesia europea e americana ultracontemporanea. Basti considerare quel suo tono così sapientemente dimesso, che sembra trovare il connubio perfetto tra la lezione dell’autore delle Storie di ordinaria follia e quello di Le particelle elementari. Per non parlare di quanto dimostri tutta la sua postmoderna contemporaneità nella mescolanza dei registri che passano repentinamente, ma in modo armonioso, dalla trivialità allo slancio del sentimento, attraversati da una vena narrativa che, lardellata da un’invettiva epigrammatica graffiante e mordace alla Marziale, giunge fino alla confessione intima. Questa sua postmodernità è ben visibile fin dagli eserghi posti a principio di certe liriche, dove a un passo ricercato tratto da una lettera di Van Gogh ne segue, nella lirica successiva, uno preso da testi considerati libracci da supermercato come la biografia del tennista Agassi, o quella del noto esploratore Messner. Franz è così, a differenza dei poeti più seriosi e blasonati: vive nel mondo, conosce la vita, e niente di ciò che è umano gli è alieno. Potrebbe essere letto da chiunque, ma non per questo è un autore volgare, o sciatto. Certamente, non è commerciale. Tra i suoi meriti, non bisogna dimenticare, c’è quello di non aver mai vinto un premio letterario, il che, conoscendo le sotterranee trame mafiose delle giurie, non può che darvi l’idea di quanto possa essere scomodo. Infatti, come dice lui stesso, “mi sono rotto i coglioni della letteratura”, intendendo con ciò gettare l’ignominia sull’ambiente di pseudo scrittori, letterati, professoroni e tutta la cancrena, per dirla con Marinetti, che infesta il mondo editoriale.
Leggendo Krauspenhaar vi troverete finalmente al cospetto di una poesia come l’avreste sempre voluta leggere, ma che non avete mai trovato da nessuna parte e che, a scuola o in università, si guardano bene dall’insegnarvi. Se Simone Cattaneo è il più grande poeta, purtroppo morto, degli ultimi trent’anni, Franz Krauspenhaar è il più grande dei sopravvissuti, essendo egli realmente scampato a un infarto e a una vita d’artista piuttosto in salita, priva di un qualsivoglia appoggio politico. Potrete partire da uno qualunque dei suoi testi sopraccitati. Non è neanche necessario rispettare l’ordine cronologico di uscita. Sono tutti parte di una colossale opera che ha per collante l’uomo Franz e per tema generale la vita di ogni anima dotata di quella minima sensibilità per vedere quanto male ci sia nel nostro tempo. Non pensate però di essere al cospetto di un poeta troppo alto per la vostra emotività da semplici umani. Franz è come ognuno di noi, come i personaggi di Houellebecq, un po’ vittima e un po’ carnefice. Non pensa cose che voi non pensiate, non medita poeticamente su scenari idilliaci che non appartengono al vostro quotidiano. Piuttosto, pensa alle donne come ognuno di noi, si fa una birra, vive in un comune appartamento nella sua amata e odiata Milano, prende la metropolitana, bestemmia contro i volti che compaiono sullo schermo della televisione. Questa è la sua poesia, questo ciò che fa il suo ingresso ed è sparso ovunque lungo i suoi versi: sentimenti cupi e risate amare, ossessioni nevrotiche e incombenti oggetti del vivere comune, una intima e protratta rivolta contro l’anestetizzazione del nostro tempo e contro ogni poesia complice dell’acquiescenza a esso (“Come fanno quelli che non si incazzano mai? Fanno/ incazzare gli altri, col loro fluviale e tempestoso lirismo./ Io amo il lirismo, è meglio della banana liquida, o del tonno/ che vola dalla rupe in forma di enorme scatoletta Tarpea./ […] Non siamo noi e lo siamo, tutti insieme/ corrotti, corruttori, santi e madonne profane, mentre/ Dio sta sulla soglia di tutto il manicomio, e sorride/ angelico, fischiettando una canzone dei Beach Boys).
Persino nel suo ultimo testo poetico, Capelli Struggenti, più meditativo e intimo, una riflessione e un fare i conti con l’inesorabile incedere del tempo, Krauspenhaar non arriva mai a un ripiegamento che si riduca a chiusura. La giovinezza è un ricordo, struggente come i capelli oramai persi, o incanutiti, di quando si aveva qualche decade in meno. Quel percorso è andato, indietro non si torna. “Ma sono arrivato, e questo forse conta”, dice lui. Il nostro momento è adesso.
Due parole in chiusura su quello che considero il più grande poeta inedito a me conosciuto. Parlo di Luca Ormelli, laurea in Filosofia, analista informatico, che ha da poco superato la soglia dei quaranta. Perché parlare di un poeta inedito, di quello che, secondo una visione comunemente diffusa, dovrebbe essere considerato uno scarto del vasto sottobosco letterario nazionale? Come fa giustamente notare l’amico e Maestro Guido Oldani, non accade sempre che un vero poeta trovi collocazione in vita nel mercato editoriale. Nel paese della spazzatura letteraria, dei vari Volo e Catalano paraculi e piacioni, non si può che lodare e ringraziare la resistenza letteraria di personaggi come Ormelli. La sua silloge inedita, provocatoriamente intitolata Gangbang (pratica sessuale in cui due o tre uomini copulano contemporaneamente con una donna), ben descrive il senso di alienazione e disagio esistenziale dell’individuo contemporaneo metropolitano afflitto da una vita sconclusionata, priva di legami sociali, in cui il lavoro è semplice strumento di sussistenza che si protrae insensatamente per le otto ore canoniche (La città è un urlo verticale/ contro Dio, ti prende per mano/ e odia – odia le cravatte/ i ristoranti cinesi/ le puttane negre/ le notti strette al collo). Ma nella scrittura dell’autore padovano c’è molto più di una generica incapacità di inserirsi positivamente nella contemporaneità. Troviamo, per esempio, tra i suoi versi, il senso luttuoso di uno iato oramai irricucibile con una natura brutalmente allontanata dalla violenza espansiva dell’uomo (Oggi qualcuno è morto./ I fili del tram tagliano la città./ Nessun cielo vi si appende,/ nessun Dio da bestemmiare./ Solo questo trascinarsi di giorno/ in giorno, senza più fiato). Non credo pertanto che Ormelli sia un poeta non civile, come si definisce lui nei suoi versi (E non parlatemi/ di poesia civile,/ di impegno:/ sono fin troppo/ occupato a fare/ giorno, a tirare/ le cuoia). Al contrario, le sue prese di posizione e la sua denuncia – peraltro solo apparentemente sguaiata, ma in verità molto ben ponderata – è vera politica, o se non altro la questione sociale calata e declinata in versi (Di neon in neon si muove la città./ Un ingorgo di slip,/ di culi esposti/ alle intemperanze della strada./ Bagnata di Campari/ la notte tatuata sulla schiena/ balla con accenti stranieri./ Proprio una gran troia stanotte). Il futuro della poesia sta in versificatori come lui, poeti il cui contatto con la realtà è così vivo e inaggirabile da rendere impossibile ogni fuga consolatoria, come si riscontra purtroppo in tutto il peggio della poesia italiana attuale (Vedo lontano un riquadro di cielo,/ azzurrato tra monitor e luci al neon./ Il sole sembra fermarsi oltre il vetro,/ incerto se sciogliersi o tramontare./ La morte cerebrale che invade l’ufficio/ è inalterabile anche dalla primavera./ Un automa in piedi accanto a una scrivania,/ gli occhi allucinati di bytes, mi chiama “collega”).
Bibliografia in ordine di comparizione:
- Mark Edmundson, Poetry Slam or, The decline of American verse è reperibile all’indirizzo internet https://harpers.org/archive/2013/07/poetry-slam/.
- Ben Lerner, Odiare la poesia, Sellerio, Palermo 2017.
- Matteo Fantuzzi, La stazione di Bologna, Feltrinelli, 2017.
- Rita Pacilio, Prima di andare, La Vita Felice, Milano 2016.
- Franz Krauspenhaar, Capelli Struggenti, Marco Saya Edizioni, Segrate 2016.
- Luca Ormelli, Gangbang (silloge ancora inedita).