“Non me lo spiego neanch’io” sospira amaro Baldo Licata, che l’eros lo respira, lo studia e lo sogna – e, a margine di un’esistenza sapida, lo scrive (una rubrica di “alfabetizzazione erotica” su Il Borghese, un libro pubblicato nel 2006: L’oscura meraviglia) – da decenni. Anche lui si è accorto che il desiderio è in caduta libera e che più di qualche trentenne, tra un’“avventura amorosa” e una partita di calcetto, non ha dubbi. Il calcetto, naturalmente…
Si finisce per ragionarci a tavola, anche se si stava parlando di politica o dei massimi sistemi. Ci si colpevolizza e si tenta l’illusione farmacologica. Oppure si lascia proprio perdere: nemmeno la vergogna di non essere più vivi.
In genere, è la questione del momento. Perché? Perché un tempo una carezza sul piede poteva travolgere un’esistenza mettendole le ali e oggi si trovano i gadget per l’autoerotismo meccanico nei distributori automatici delle farmacie ma gli occhi non luccicano più? E, soprattutto, come fare perché il tempo della vertigine ritorni a stordirci con il suo surplus di ossigeno?
Ma forse il problema è davvero politico e non sbagliano quelli che condividono la tavola per programmare un agire politico e arrivano a parlare della propria delusione erotica. L’ideologia della viltà a tutti i costi: ecco chi si è mangiato i nostri pizzi neri, le nostre rapsodie tattili, i nostri sguardi di intesa e soffi che si confondevano. L’eros – scaturigine della vita, sinonimo di vita – è politicamente scorretto per eccellenza. È fuga dalle gabbie di una razionalità calcolatrice: è accettare di giocarsela, la vita, se l’eternità di qualche ora può essere meraviglia.
E invece. Ormai si viene cresciuti nel gusto degli omogeneizzati. Un’istigazione all’anoressia. Le tappe sono obbligate e guai a uscirne. Asilo, scuola primaria, scuola secondaria, università, specializzazione – e poi fila e attesa estenuante per un posto di lavoro triste e sottopagato (se arriva). Nessuna speranza di potenza e successo. Solo piccole cose. Piccolissime.
All’età dell’asilo si deve già aver digerito le parole della cortesia inautentica. Grazie. Prego. Permesso. Posso?
Poi li vedi incarogniti, i ragazzini, a soffocare i due gridi che l’istinto versa nel loro sangue: Io e Mio (a trasformarli in due ipostasi ben più nocive: Ricatto e Risparmio). A scuola e nel doposcuola si aggiungono le ore di deformazione della colonna vertebrale e della sua graziosa estremità inferiore sulla sedia a studiare. Perché studiare proprio quelle cose? – domanda la vocina sana e vera. Risposta del genitore, frustrato a sufficienza da odiare ogni segno di vita: “Sennò non giochi con la ‘play’”. Lo sport del pomeriggio è anche quello non gioco, non gusto, ma convenzione. Così fan tutti. E cresci sempre più ottuso, finché il lavoro spettrale, evanescente, sottopagato che troverai, dopo un ventennio di quelli che un tempo si chiamavano con troppa enfasi ‘sacrifici’ (e ora sì che sono uno strazio), non ti dà la mazzata finale. Senza Io e senza Mio, come può più interessarti il mondo del desiderio? Sei depresso, non hai voglia di niente, non credi più a nulla, neanche ai miracoli. Sei stravolto dalla fatica fatta. Non hai più in corpo le forze per celebrare l’espressione massima dell’energia: l’eros.
Dovrà passarci questa assurda stanchezza sociale prima che esploda di nuovo la nostra volontà di baci e di carezze e di variazioni infinite di baci e carezze.
E di arte.
E di cieli.