Sorriso immodificabile, capelli biondo platino, manicure impeccabile, tacco 12 e delle misure che una donna reale riuscirebbe ad ottenere solo con 27 interventi di chirurgia plastica e ricostruttiva. Parliamo di Barbara Millicent Roberts, detta Barbie, la bambola messa in commercio da Mattel il 9 marzo del 1959 e diventata l’epitome di tutto ciò che di “bello e buono” la società sia in grado di offrire. L’artista-fotografa americana Mariel Clayton ha deciso, attraverso il suo lavoro intitolato “Dolls”, di demolirne il mito, di raccontare a tutte le generazioni che hanno sognato con Barbie tra le mani, la sua verità sulla bambola-fidanzatina d’America. Nella serie di fotografie la pupattola è rappresentata come una sociopatica assassina, perfettamente immersa nel contesto della sua casa, in uno scenario riprodotto con cura maniacale del particolare.
Barbie si ritrova vittima dello stereotipo che incarna e si ribella a se stessa passando da un circolo vizioso a un altro. Barbie non sembra avere lo straccio di una virtù e sceglie di scrollarsi di dosso l’involucro di perfezione con un’overdose di violenza cruda ed esasperata. Non sceglie di disintossicarsi dal ruolo di ragazza mielosa, accondiscendente, superficiale e priva di personalità, ma giunge alla deflagrazione delle sue nevrosi. Ricordate il film La donna perfetta? in cui le abitanti di Stapford – remissive donne di casa e amanti sempre pronte all’uso dei propri mariti – sono in realtà dei robot? Riuscite a immaginarle assassine una volta spento il sofisticato chip che le governa? La fantacommedia che critica il conformismo consumista con satira anti-maschilista e cinismo anti-femminista, si trasformerebbe in qualcosa di surreale e inquietante, in una destabilizzante riflessione sulla menzogna.
La Barbie di Clayton è (come) un’anoressica che anziché scegliere di iniziare a mangiare in maniera normale, diventa improvvisamente bulimica. Da impeccabile-perennemente-giovane-fanciulla-massaia si trasforma in spregiudicata-killer-erotomane. L’artista-fotografa ricontestualizza Barbie nella sua stessa realtà e colloca le sue azioni sanguinarie nella dimensione della follia, già insita nel carattere della bambola. Quest’ultima sodomizza, umilia e infine uccide Ken, ma non lo fa sempre con rabbia. La maggior parte delle volte la scena è avvolta da un alone di calma, di normalità, come se tutto fosse avvenuto tra la preparazione di una torta e le pulizie della casa. L’educazione, i modi ridondanti e zuccherosi, lasciano il posto all’ultra-volgarità, all’ultra-violenza, espressa nitidamente, come solo il migliore dei Quentin Tarantino saprebbe fare, con tanto di celebrazione del sangue e ironia beffarda. Ed è proprio l’ironia l’ingrediente fondamentale di Clayton, che ci tiene a sottolineare di fare tutto questo più che altro per divertimento e non per uno slancio femminista o a causa di traumi infantili. In tanti si sono chiesti come mai abbia voluto rappresentare Ken in procinto di essere sodomizzato da Barbie (armata di manette, lubrificante e strap-on). L’artista ha risposto che voleva essere una provocazione nei confronti della Mattel: come mai ha creato un bambolotto senza genitali? O ancora: e se Ken avesse altri gusti sessuali rispetto a quelli che gli sono stati imposti?
La violenza adrenalinica che le opere dell’artista esprimono, pone senza dubbio delle domande sulla mente umana e sui suoi oscuri meandri, mettendo in atto quell’insieme di pruriginose fantasie che ogni bambina prima o poi ha immaginato, forse come gesto di ribellione, oggettivato spesso nella rasatura dei capelli della propria bambola. Barbie come Hannibal Lecter, che con la stessa serafica ritualità fa lo scalpo al fidanzato, senza rinunciare all’abito da cocktail e al filo di perle, ma che a differenza del celebre serial-killer, diviene sgraziata, rozza, con la sigaretta al limite delle labbra o sul wc con gli slip calati alle caviglie. Per anni Barbie non si è mostrata per quella che realmente è. E voi?