Sculture evocative e gotiche: le maschere e i corpi di Adolfo Wildt. Pochi giorni fa, un ampio servizio televisivo, “Il marmo e l’anima”, ha acceso l’attenzione del grande pubblico sull’artista milanese, un interprete del novecento simbolista. Ed ecco in tv una carrellata di corpi marmorei abbracciati dall’ansia della fine; ecco la fissità di maschere che sembrano appartenere alle cattedrali trecentesche; ecco i lucidi busti stilizzati che furono amati da Lucio Fontana.
In televisione la riscoperta di Wildt è un atto critico intelligente. Ciò avviene dopo la mostra, ‘Adolfo Wildt (1868-1931). L’ultimo simbolista’, conclusasi a febbraio, presso la Galleria di Arte moderna del capoluogo lombardo. Questo interesse prima è sembrato un momento d’amore della milanesità verso un artista che collegò la sua figurazione ai movimenti europei; invece, poi, la recente esposizione ha riaperto il dibattito su un’arte innovativa, su un linguaggio composto da preziose citazioni.
Dopo la Prima guerra mondiale, per diciotto anni, la Germania si innamorò di Wildt; lo scultore pertanto fu inserito nell’ambiente della Secessione di Monaco. Dopo la sua morte venne il tributo della Prima Quadriennale di Roma. Però, con il 1945, sull’artista calò il silenzio, giacché Adolfo Wildt fu riconosciuto, prima di tutto, come il creatore della ‘Maschera di Mussolini’ (1923) o di opere che rappresentavano il duce del primo Fascismo. Ma questo milanese, che sapeva dare la vita al marmo, non espresse mai l’engagement di Mario Sironi, eppure la cultura politica del dopoguerra lo annullò. E fu l’oblio. Della sua espressione, echeggiante motivi medievali e/o rinascimentali rinnovati da una sensibilità liberty, non si disse più niente, per decenni. .
Abbiamo oggi la pacatezza post-ideologica per ricordare che i danni generati dalla critica politica nel dopoguerra furono vastissimi. Il caso di Wildt è esemplare. Con la mostra al Musée de l’Orangerie di due anni fa, con quest’ultima esposizione milanese, Wildt ritorna come uno degli artisti italiani meno celebrati, per il quale diventa attualissima una ricerca partendo dalla rilevanza del suo sperimentalismo.
Wildt fu sperimentatore della materia. Piegò il marmo alle sue visioni. Cercò il silenzio dei simboli mentre scolpiva un’umanità segnata o dalla grazia o dal dolore. L’opera ‘Vittoria’ (1918-19), conservata nell’ingresso neo-bizantino del Palazzo Berri Meregalli del centro di Milano, appare metafisica, senza tempo. Le piccole sculture di donne – colli allungati e occhi chiusi – dicono la malinconia di un gusto borghese che sapeva rinnovare se stesso.
Si è tornati a discutere onestamente di Wildt. La storia dei busti mussoliniani è stata giustamente compresa come un’esperienza italiana del Novecento. La furia dell’aprile 1945 faceva male all’arte: così i milanesi se la presero con il busto ducesco di Wildt, che arredava la casa del Fascio, frantumandolo a colpi di piccone. Si sa, l’arte paga per prima quando cala il buio della Storia, perché le rimproverano di essere un riflesso della realtà, di essere propagandistica. Tuttavia, aveva ragione Jorge Luis Borges:
“Chi dice che l’arte non deve propagandare dottrine si riferisce di solito alle dottrine contrarie alle sue”.