Pochi giorni fa ho scritto della Jérusalem di Verdi, la prima delle sue Opere francesi, facendo l’amara osservazione che per vederla, e ascoltarla, in un allestimento fedele e apprezzabile sono dovuto andare fino a Liegi. A più forte ragione parlo ora del Don Carlos, messo ora in scena al Teatro Nazionale Croato di Zagabria sotto la direzione di Elio Boncompagni.
Rappresentato per la prima volta all’Opéra di Parigi nel 1867, questo Dramma musicale causò all’Autore delusioni e dispiaceri come nessun altro. Alla prima esecuzione fu tagliato perché gli abbonati dovevano prendere l’ultimo omnibus: e Verdi non riuscì mai ad ascoltarlo intero. A grado che il tempo passava l’Opera perdeva pezzi. La traduzione italiana è scadente in sé e tradisce un’invenzione musicale mirabilmente congiunta alla lingua francese. Preso dalla disperazione, il Maestro fece un’edizione che ometteva del tutto il primo atto, portando il Don Carlo a quattro. L’omissione del primo, oltre a privarci di musica alatissima, rende incomprensibile la drammaturgia. Intanto Verdi, incontentabile come tutti i sommi, continuò a limare l’Opera: per vent’anni. L’ultima versione, in italiano, del 1886, ripristina il primo atto: ma il vero inizio di questo, intanto, si era perduto, e venne trovato all’Opéra da Andrew Porter solo nel 1973. Credete che da allora, pubblicatasi anche l’edizione critica della partitura, la volontà dell’Autore sia stata rispettata? Per nulla. L’Opera alla quale Verdi affida il testamento politico, il testamento spirituale e anche la sua visione del mondo – se consideriamo che il messaggio del Falstaff è come quello di uno che dal mondo s’è tirato fuori – continua a essere eseguita in versioni invereconde. O in quattro atti: e che quella in quattro atti sia dovuta all’Autore non significa che sia la preferibile. O in cinque: con tagli tali, e di brani e all’interno di essi, da sfigurare musica e dramma.
La versione preparata da Boncompagni e da lui già eseguita nel mondo – ma non in Italia – reinstaura le parti omesse o perdute ma inserisce le modifiche meliorative prodotte dall’Autore. Poi il musicologo cede il passo al grande direttore: e assistiamo a una sovrana partitura sinfonica che procede in modo autorevole, con vero passo drammatico, senso della forma, e retto rapporto fra orchestra e palcoscenico. Forse per la prima volta, almeno in questo secolo, la volontà di Verdi si realizza appieno. Ci sarà speranza che ciò avvenga in Italia?
Quando dico che il capolavoro è anche il testamento politico di Verdi intendo che qui si afferma del tutto il suo pessimismo. Il Male pervade l’umana società e s’identifica colla volontà di potenza di un monarca schizofrenico, Filippo II, e della Chiesa, che per suo interesse fa coincidere colla sua la propria volontà di potenza. La folla del Male è partecipe e gode: ecco una coincidenza fra Verdi e Manzoni (la rivolta dei forni) che la dotta musicologia non è stata capace di rilevare. E l’eros a Verdi interessa solo in quanto possa sublimarsi in sacrificio. Qui i protagonisti non riescono nemmeno a questo: gli accenti d’amore di Don Carlo sono appassionati quando sono rivolti non alla donna di che è innamorato, ma a una che si è travestita col suo abito. E costei ama Carlo per volontà di potenza, proprio come Amneris ama Radamès. L’amore come illusione cosmica; e la fine delle illusioni. Trovatemi maggior pessimismo.
Ho ascoltato cantanti buoni o ottimi. Discreta la Elisabetta di Adela Golac Rilovic, buoni la Eboli di Dubravka Separovic Musovic e l’Inquisitore di Branislav Jatic, ottimi il Filippo II di Luciano Batinic, il Rodrigo di Ljubomir Purkaric e il Carlo di Tomislav Muzek. Italo Grassi è riuscito, con cambi velocissimi e una scenografia girevole, a far durare lo spettacolo quattro ore e venticinque. Il regista, Derek Gimpel, sconosce l’Opera e l’ambienta a fine Ottocento.
*Da Il Fatto Quotidiano