Martedì prossimo, 11 aprile a Benevento il Nord e il Sud si incrociano con l’obiettivo di saldare “Un nuovo patto, un nuovo racconto”. L’iniziativa, organizzata da Mezzogiorno Nazionale, riunirà attorno a un tavolo il governatore della Regione Lombardia, Roberto Maroni e l’ex sottosegretario Pasquale Viespoli. Insieme a loro, il presidente di Confindustria Campania, Costanzo Jannotti Pecci e il direttore artistico di Napoli Teatro Festival, Ruggero Cappuccio. Modera l’incontro, il direttore di barbadillo.it Michele De Feudis. Abbiamo chiesto a Pasquale Viespoli le ragioni e le ambizioni del convegno che si terrà nell’auditorium Vergineo del Museo del Sannio.
Perché quest’incontro a Benevento?
Perché si tratta di recuperare un dibattito e di un momento di rottura su stereotipi e luoghi comuni. Ecco perché il titolo è “Un nuovo patto, un nuovo racconto”. L’Italia è un paese disunito, l’unità nazionale è un orizzonte non una retrospettiva. Un’evocazione, una data, un elemento retorico: perché non c’è nella vita delle persone, non c’è nella coesione nazionale, non c’è nella dimensione statuale. Allora un nuovo patto è necessario per questa ragione. Il Sud è uscito dalla Costituzione nel 2001, è stato letteralmente così dopo la riforma del Titolo V. Basta confrontare gli articoli, prima e dopo. È da quel momento che l’equilibrio Nord-Sud non è più un elemento fondativo della Repubblica, non rappresenta più una missione nazionale. Allora un nuovo patto è adesso necessario anche perché se non si procede su un duplice terreno, quello dei diritti garantendo salute, istruzione, mobilità, lavoro sicurezza ai cittadini e su quello delle grandi riforme istituzionali, non si fa unità. Non si fa coesione. Non si fa nuova statualità. Non si fa niente.
L’unità nazionale, in Italia, è davvero ridotta così male?
Se continua così, l’unità non c’è. La secessione è in marcia perché si allargano le differenze e le disuguaglianze tra le persone, tra i territori fra le generazioni. Questo è il dato della crisi. Tra l’altro questo processo, che non rimpiccolisce, non fa grandezza. Il sistema Paese non fa coesione e non fa competizione. In questa chiave, persino la dimensione di Europa diventa troppo piccola, così in prospettiva .Così com’è la situazione attuale, noi subiamo questo processo di rimpicciolimento perché si è smarrita la dimensione nazionale e il sistema Paese diventa un luogo comune.
La politica s’è scordata del Sud?
È evidente che è necessario aprire un grande dibattito politico e culturale e noi gettiamo un piccolo sasso, senza presunzione. Ma cercando di raccogliere le fila, partendo appunto da duplice presupposto. Ad oggi il quadro è quello della disunità nazionale ed è importante verificare e sottolineare quali siano state le responsabilità storiche delle classi dirigenti meridionali.
Avviare un grande dibattito politico è fondamentale per l’area della destra o del centrodestra, se vogliamo continuare a definirla in questo modo: senza un processo culturale e politico, al Sud non si fa un cambiamento reale, ma ci si limita alla sommatoria di vecchi pezzi di classe dirigente. Il dato fondamentale e ineludibile rimane uno e inconfutabile: la “destra”, tra Msi e An, ha svolto una funzione fondamentale quale forza di cultura nazionale e di radicamento meridionale. Che oggi manca.
Eppure c’è chi (pare) provarci. Matteo Salvini qualche settimana fa è sceso a Napoli.
C’è un vuoto, questa è la realtà. E non lo colma Salvini. A destra non si può ritenere che il problema del Sud sia dei meridionali. Bisogna registrare che il Mezzogiorno è scomparso dall’ agenda politica, da tutte le agende politiche, tanto come questione nazionale che come punto nodale delle politiche europee. Chi parla più, oggi, del Mediterraneo? La dimensione euromediterranea, all’interno della quale il Sud Italia assume un ruolo strategico è letteralmente scomparsa dal terreno del dibattito sullo sviluppo e dalle cartine della geopolitica. Una responsabilità culturale in particolare che ricade sul centrodestra. E allora, stando così le cose, la sfida è una sola e sta tutta nell’aprire un dibattito consapevole, superare una certa concezione del regionalismo e del macroregionalismo, come quello tratteggiato dallo stesso Roberto Maroni in una recente intervista rilasciata a La Verità che finisce nell’evocare, per il Nord, il miraggio della Mitteleuropa.
Al di là dei luoghi comuni, quale è il momento che vive oggi il Mezzogiorno?
Quando parlo del Sud non ne parlo come di un’area del paese che non ha processo di industrializzazione che non ha qualità. Anzi, è bene che se ne parli come di un’area del nostro Paese che nonostante precondizioni deficitarie, ha avuto la capacità di costruire poli di eccellenza, dalla ricerca e fino al manifatturiero. Non ci deve essere spazio per una visione pauperistica, niente sconti alla rappresentazione di un sud piagnone e assistenzialista, la cui borghesia preferisce cercare l’intermediazione con la politica anziché misurarsi sul campo del merito. La nostra è la rappresentazione di un Sud positivo, che c’è, che esiste e che oggi va aiutato a ritornare in carreggiata, a rimuovere i mille problemi atavici che ne affossano lo sviluppo, e bisogna farlo sul serio nell’interesse stesso tanto del Paese, quanto del Nord Italia e dell’Europa. Le parole chiave debbono essere quelle dell’autonomia, della responsabilità e dell’unità. Nella declinazione di questi temi nella vita quotidiana dei cittadini – dai servizi essenziali fino alle possibilità effettive – che c’è la strada per accompagnare uno sviluppo serio e coerente del Mezzogiorno. Senza il quale non può esserci unità nazionale.
C’è un grosso problema da affrontare, prima di tutto questo: è la subalternità culturale e il fastidio che quasi si prova a voler parlare del Sud, percepito alla stregua di un ingombro. Tutto questo perché si fa troppa difficoltà a percepire la centralità culturale, politica e geopolitica del Mezzogiorno.
Quali sono i rischi per il Sud e, quindi, per l’Italia?
Forse non ce ne sono. In vena di provocazioni, basterebbe restar seduti sulla riva del fiume. Il Sud vive una desertificazione pericolosissima: non c’è lavoro, non c’è sviluppo e i giovani se ne vanno. Quelli che rimangono non fanno più figli. Quella del Sud è una questione che, oggi, si fa addirittura demografica. Tra un po’ di meridionali non ce ne saranno più. È necessario un nuovo racconto, legato alla realtà per invertire questo processo.
Quale è la deriva della nostra democrazia?
La democrazia vira verso un sistema di voto senza popolo. Si fa oligarchia. L’area di destra dovrebbe aprire un processo costituente vero che, come si diceva una volta, rinconcili le masse con lo Stato, il popolo con le istituzioni. Non si è fuori dalla realtà a invocare il recupero di un processo costituente che valorizzi la sovranità popolare. Da anni si parla di seconde e terze Repubbliche: ma quando mai! Stiamo giocando i tempi supplementari e i rigori ancora della Prima. Proprio perché non si può parlare di nuova repubblica se non si avvia e consolida un processo ri-costituente. E questo deve fare la destra, avviare referendum costituzionali, chiedere al popolo cosa ne pensa di questo regionalismo e come vuole che sia organizzato lo Stato. Senza grandi ambizioni non si può rianimare nulla. E una destra deve fare questo, altrimenti non ha senso?
Cosa fa la destra oggi?
La rincorsa alla banalizzazione della politica, costretta in spazi senza ariosità ti riduce a pensare che, per esempio, quello dell’immigrazione sia un problema di ordine pubblico quando invece è una questione di carattere internazionale. La sensazione è, a volte, che la destra sia salita sul Trump sbagliato…io da destra mi aspetto l’idea imperiale d’Europa, non il rattrumpimento dell’idea.
Senza ricucire sul serio l’Italia, tutto il sovranismo va a farsi benedire. La sovranità, che io sappia, appartiene agli Stati e alle nazioni. Oggi, con un Paese diviso e frammentato, senza recuperare il senso dello Stato (cosa ben diversa dallo statalismo) non si può proprio far nulla.