Si dice spesso che il noir è il genere letterario (ormai promosso dalla serie B in cui è stato relegato per tanto tempo) che meglio sa leggere le mutazioni della società. I cambiamenti del mondo criminale, certo. Ma anche politico, economico, di costume. In una parola il noir si candida a diventare il romanzo sociale della contemporaneità. In Italia come in tanti altri Paesi del mondo, dove il genere poliziesco si colora sempre più spesso di tinte politiche.
Scrittore alla Bukowski
Ne è una prova il romanzo “Che da lontano sembrano mosche” dell’argentino Kike Ferrari, pubblicato da Pensa Multimedia di Lecce, una piccola casa editrice che nella collana La Quinta del Sordo propone interessanti traduzioni di autori spagnoli e sudamericani contemporanei e del passato. In Argentina Kike Ferrari, 44 anni, già premiato con importanti riconoscimenti in Spagna, Cuba e Francia, è un personaggio che sta diventando popolare soprattutto per le sue caratteristiche “bukowskiane”: lavora come addetto alle pulizie nella metropolitana di Buenos Aires ed è delegato sindacale, per cui giornali e televisioni sono andati a nozze nel mostrarlo intento a ripulire la stazioni sotterranee e un attimo dopo, in un momento di pausa, mentre scrive al pc portatile seduto su una panchina della fermata.
Lo zampino di Borges
Ma al di là di questi aspetti un po’ folkloristici, Ferrari si conferma autore di razza proprio in questo breve romanzo, scritto nel 2009 (141 pagine, 16 euro). “Che da lontano sembrano mosche” non è un giallo e tanto meno un poliziesco. È un racconto nero, nerissimo, che fin dal titolo richiama un testo di Borges (che era un appassionato di gialli) e descrive nell’arco di una giornata la parabola del protagonista, il cavalier Machi (si pronuncia Maci). Il personaggio è il perfetto archetipo del turbocapitalista senza scrupoli emerso e arricchitosi nei torbidi anni successivi al default dell’Argentina del 2001, quando la scriteriata politica ultraliberista di Menem e dei successivi governi (parità forzata peso-dollaro, privatizzazioni rapaci, apertura totale del mercato alle imprese straniere) portò il Paese sudamericano nel baratro. E non è un caso che fin dal cognome il protagonista richiami quel Mauricio Macri che nel 2009 era solo uno degli imprenditori più ricchi d’Argentina, con evidenti velleità politiche; ma che oggi, da un anno e mezzo, è presidente della nazione.
Mutazione genetica dell’oligarchia
Machi non è Macri ma gli somiglia, così come somiglia a tutta una classe imprenditoriale che dopo aver flirtato con la dittatura militare ha scoperto che è possibile arricchirsi anche in democrazia, portando avanti rapporti di stampo mafiose e clientelare con la classe politica, come ben sappiamo anche in Italia. Il cavalier Machi rappresenta la mutazione genetica del vecchio oligarca sudamericano, industriale o latifondista, conservatore, militarista e magari bigotto. È l’homo novus che non ha più vincoli tradizionali, di casta, di morale o anche solo di forma. È la figura, familiare anche da noi, del rampante spregiudicato che arraffa a destra e a manca, che per fare business si serve della politica, dello sport e persino della malavita, in un trionfo di auto di lusso, amanti pronte a tutto, fiumi di cocaina e viagra.
L’incubo del cavaliere
Il mondo sorride a Machi fino a quando non avviene l’imprevisto: la banale foratura di una gomma dell’amata Bmw getta un granello di sabbia nell’oliato ingranaggio del suo successo. Nel bagagliaio della vettura il protagonista scopre un cadavere ignoto, sfigurato e ucciso con la sua stessa pistola, che gli era stata sottratta a sua insaputa. Panico. Il cavalier Machi dovrà sbrogliarsela da solo, perché in realtà non ha amici né persone di cui fidarsi ciecamente. E mentre tenta inutilmente di capire chi abbia potuto tendergli il tranello, Machi comincia un’allucinante gimkana per i desolati sobborghi di Buenos Aires alla ricerca di un modo per sbarazzarsi del cadavere. Il finale, come sempre in questi casi, riserva altri colpi di scena e precipita il personaggio verso un incubo che non avrà fine. Una storia nera e surreale, quella di Kike Ferrari, densa di riferimenti letterari (oltre a Borges, Foucault) e di rimandi alla storia argentina degli ultimi quarant’anni.