Per vent’anni l’hanno cercata, tastoni, nei meandri occulti della borsa del giudice ammazzato in via D’Amelio il 19 luglio del 1992. E in vent’anni d’indagini e processi farsa, con pentiti farlocchi e innocenti condannati, non si sono accorti gli inquirenti a caccia di fantasmi – che l’«agenda rossa» di Paolo Borsellino era proprio davanti ai loro occhi, sotto il loro naso, accanto alle carcasse incandescenti delle auto, immortalata in un vecchio filmato dei vigili del fuoco girato subito dopo l’esplosione.
Dal 2007 hanno linciato l’allora capitano dei carabinieri Giovanni Arcangioli accusandolo d’aver rubato lui il diario del giudice solo perché in video e fotografie lo si vedeva con la borsa del magistrato dentro cui si decise, senza uno straccio di una prova, dovesse esserci l’agenda. Che invece era dove doveva essere: in strada, accanto ai resti mortali del magistrato, semicoperta da un cartone, spostata con i piedi da un poliziotto con tracolla e mocassini. Ce l’aveva in mano Borsellino quando scese dalla blindata, forse la teneva «sotto l’ascella» come sembrava di ricordare all’unico sopravvissuto della scorta e come ammette il procuratore Lari. E pure i familiari, dalla sorella Rita alla moglie Agnese, lo dicevano incessantemente: Paolo non se ne separava mai.
Ecco. Lo scoop di Francesco Viviano, ieri su Repubblica, cancella in un solo colpo due decenni di accertamenti catastrofici basati sulla convinzione mediatico-giudiziaria che qualcuno fece sparire la borsa con dentro «l’agenda rossa» perché all’interno vi erano custoditi i nomi dei mandanti eccellenti e dei politici collusi, i segreti delle stragi e l’indicazione dei soggetti istituzionali responsabili dell’indimostrata «trattativa» Stato-mafia. Follie. Perché è impensabile che un magistrato come Borsellino non abbia ritenuto di condividere indizi di reato con sbirri e colleghi, arrivando addirittura a non verbalizzare le gravissime accuse fatte dal pentito Mutolo. Minchiate. Quell’agenda dimenticata, più semplicemente se l’è portata via l’azienda addetta alla pulizia della strada, anche se c’è da scommetterci che da qui ai prossimi vent’anni, fioccheranno nuove indagini, nuovi indagati, libri, convegni, dibattiti, cortei e manifestazioni con agende rosse al cielo. E comunque, se qualcuno l’ha fatta sparire di proposito, resta lo scempio investigativo, il coté mediatico che ne è seguito, la sciatteria.
E invece bisognerebbe cominciare col chiedere scusa al povero carabiniere Arcangioli che dopo due richieste di archiviazione, sempre respinte dal gip, si beccò un’imputazione coatta per furto aggravato dalla finalità di aver agevolato Cosa Nostra prima di venire prosciolto eppoi archiviato per false dichiarazioni al pm. Nonostante la sentenza sia passata in giudicato e il reato sia andato prescritto, l’ex capitano, oggi colonnello, non viene mollato dai pm e da certi cronisti che si sono recentemente eccitati per un video «inedito» e «clamoroso» (un altro, non quello dello scoop di Viviano) esibito al processo Borsellino quater dove Arcangioli è stato ascoltato come testimone e dove ha ribadito di aver aperto la borsa, di non aver visto nulla di rilevante («forse la vidi insieme al giudice Ayala») e di non ricordare cosa fece successivamente non avendo trovato in quella borsa nulla di investigativamente interessante. In questo clima anche l’ex pm Ayala ha ceduto al fascino della deduzione scaricando Arcangioli: «La borsa era nell’auto, io non la aprii e la diedi a un ufficiale dei carabinieri (…). Chi ha preso la borsa si è certamente allontanato per selezionare il contenuto». Ammettendo così che l’agenda fosse nella valigetta.
Ma torniamo all’ultimo video «inedito e clamoroso» mostrato in aula, di 33 minuti, rintracciabile su internet, dove si asserisce che Arcangioli riconoscibile da un giacchino azzurro – a un certo punto passa la borsa a uno dei tre carabinieri (Tassone, Tosci e Calabria). In realtà, ingrandendo l’immagine, dal minuto 26.20 al 26.30, quel che sembra una borsa, non è una borsa (anche Arcangioli in aula ci casca vedendo l’immagine ridotta in un tablet) poiché all’altezza del petto il collega Calabria tiene le braccia conserte, non la borsa. E poi questa scena è anche fuori contesto: si sviluppa alla luce del sole, e soprattutto a cose fatte, non in via d’Amelio ma nella vicina via dell’Autonomia Siciliana parecchio tempo dopo la strage: basta scorrere il video, l’immagine vicina è quella di un carro funebre con il feretro di una delle vittime. Dentro la borsa rinvenuta successivamente nell’auto ma questo nessuno lo dice spuntò un’agenda marrone riconsegnata ai familiari dove Borsellino teneva numeri e appuntamenti. Perché, allora, in quei frangenti convulsi, rubare la rossa e non anche la marrone?
Per anni Diego Perugini e Sonia Battagliese, difensori di Arcangioli, hanno chiesto una perizia comparativa sui filmati girati in via d’Amelio utilizzando uno speciale software in grado di scovare qualsiasi oggetto compatibile, per forma e colore, con l’agenda rossa. Richiesta respinta, ovviamente. Indagini carenti. Pregiudizi. Ossessioni sull’agenda, il sacro graal dell’antimafia militante. E poi uno si domanda perché il presidente del Senato, Pietro Grasso, valuti di farsi interrogare a Palazzo Madama anziché in aula a Palermo sulla trattativa. Sa bene, che su questa roba, c’è gogna per tutti.