![Un'opera di Vitaldo Conte](https://www.barbadillo.it/wp-content/uploads/2017/03/Julius11-1.jpg)
La società contemporanea, nei paesi ad industrialismo avanzato, vive un momento di “acque basse”. In essa nulla è stabile, la dimensione liquida è il tratto che la connota pervasivamente: il lavoro, le relazioni umane, perfino i luoghi, tendono a dissolversi nell’insensato. Abbiamo smarrito, tra le altre cose, la capacità di rilevare la metamorfosi del mondo, il susseguirsi inesausto dei ritmi cosmici. Sono venuti meno, assieme alle grandi narrazioni novecentesche, anche i progetti di rinascita ad un tempo esistenziale e politico-sociale. Il presente, comunque lo si valuti ed interpreti, si presenta quale carcere senza muri, nonostante ciò invalicabile, e la vita, deprivata di creatività e aspettative, si snoda stancamente lungo i binari segnati dai cliché utilitaristico-consumistici. Anche la produzione intellettuale è silente. La connota, a destra quanto a manca, la noiosa ripetitività del già detto e già visto. La cancellazione della memoria storica europea, scientemente perseguita, non permette più di pensare il domani nei termini del sempre possibile manifestarsi dell’origine. Eppure, nonostante la mestizia spirituale dei nostri giorni, qualche significativo segno di riscatto, di reazione nei confronti del tono emotivamente grigio prevalente, è rilevabile. In particolare, nel mondo della teoria e della pratica artistica. Lo dimostra l’ultimo volume di Vitaldo Conte, Arte ultima, da poco edito da Avanguardia 21 di Roma (per ordini: info@avanguardia21.it, euro 10,00).
Il volume sintetizza l’attraversamento dell’arte contemporanea messo in atto dall’autore, sia sotto il profilo dell’elaborazione di una teoria sinestetica, quanto dal punto di vista dell’attività performativa. Con Rilke, Conte rileva come gli oggetti d’arte siano sempre da considerarsi effimeri, aperti costantemente al rischio, al possibile venir-meno, per il loro costitutivo sottrarsi all’apprensione cosale imposta dall’osservatore e, soprattutto, dal mercato. L’autore si sofferma sull’arte del corpo, esperito nell’arte ultima come vibrazionalità, e dedica un capitolo alla pelle come libro d’arte. La pelle è qui intesa quale luogo di “incontro di amore-desiderio fin dalle età più antiche” (p. 51), è vibrazione che si anima ai tattili viaggi “di mano”, cui alluse, all’inizio del secolo scorso, Marinetti. Inoltre, il corpo-grafia contemporaneo, ambito nel quale Conte ha lasciato significative testimonianze della propria creatività, può dischiudere una via verso gli archetipi. Pertanto “Far diventare sinestetica la vita è un modo per ascoltare il nostro ‘oltre’, elevando i gesti[…] a una ritualità interiore e creativa” (p. 5). Quest’arte è essenzialmente pulsionale e anamnestica, ascolta il corpo e l’istintualità di base, che può tramutarsi in reale conoscenza, a condizione che, la prassi estetica, trovi realizzazione rituale. Tratto essenziale di tale produrre deve individuarsi nella rievocazione di “tradizioni e archetipi che si ricollegano a percorsi mitico-sciamanici” (p. 56).
Il percorso performativo dell’autore ripropone ciò che nel mondo antico, l’iniziato incontrava all’apice della celebrazione dei Misteri dionisiaci. Il corpo d’arte, indagato, piagato o oltraggiato è simbolo vivente di mistica desiderante. Sulla scena viene rappresentato un sacrificio di purificazione in quanto “l’artista eleva lo spazio e il tempo a uno svolgimento rituale” (p. 60), nel quale la pagina bianca della pelle, segnata di rosso purpureo, esprime una narrazione interiore di liberazione. Nella cicatrice si ri-trova il simbolo “di una guarigione e di una bellezza sofferta” (p. 32), tipico dei clan guerriero-sciamanici. L’esito apicale e conoscitivo dell’arte del corpo va individuato nel conseguimento-presentazione della nostra immagine profonda, archetipica, sempre coperta nelle relazioni inautentiche della contemporaneità. Per giungere a tanto è necessario spogliarsi, rileva lo scrittore, della obesità di paure che ci sovrasta, come nelle corde della rivoluzione continua di cui fu latrice l’avanguardia primo novecentesca futur-dadaista.
Non è casuale che, due capitoli del libro, siano dedicati al futurismo e a Julius Evola, maggior rappresentante del Dada in Italia. Non si tratta della sterile ed ormai obsoleta riproposizione passatista e scolastica dell’avanguardia, al contrario! Conte invita a porre in atto una creazione globale e una contaminazione dei linguaggi, attraverso il loro coinvolgimento vitalistico nella realtà quotidiana. L’Arte-Vita, teatralmente realizzata un secolo fa sulla scena della repubblica del Carnaro di D’Annunzio, è mistica dell’azione in grado di ravvivare l’inferno economico nel quale viviamo, in quanto esiste un file rouge che si dipana dal Futurismo storico alle neo-avanguardie. La priorità che l’arte deve perseguire è, pertanto, rivoluzionare “comportamenti dell’esistenza[…]per osare[…] fino all’impossibile” (p.18). Conte, meglio, il suo avatar Vitaldix, alla ricerca di emozione e rischio, ha realizzato un volo/poema centrato sul vivere pericolosamente.
La stessa intensità di energia creativa è rinvenibile nell’opera dada, pittorica e poetica, di Julius Evola. La sua produttività è letta quale momento alto dello spirituale in arte, in quanto “protesa a portarsi al di là della vita” (p. 25). Quelle di Evola sono immagini e parole-evocative che sottintendono un’effettiva esperienza esoterico-alchemica. La sua poetica si fonda sull’astrattismo a-passionale che rende la produzione lirica, comunicazione pura, oltre la quale sta solo il silenzio. La medesima tendenza alla rappresentazione dell’ulteriorità, suggerisce Conte, si evince dalle opere del marchese de Sade. La sua, con Barthes, è certamente scrittura dell’eccesso che insegna a “ritrovare, intendere, vivere la propria storia come tragico movimento, inglobante l’altra faccia della ragione” (p. 32), così come della realtà, la dimensione negativa e distruttiva. All’unità del Principio rinvia, inoltre, l’estetica del bianco, che l’autore valorizza. Nel mondo antico e in quello contemporaneo, si pensi alla leucofilia di artisti quali Manzoni, Fontana, Burri o all’ambiente bianco della Biennale di Venezia del 1966, il riferimento a tale non-colore allude alla sinestesia di assenza ed essenza, di assoluto e di nulla. Sinestesia come messa in opera del vero realizzata nello sguardo penetrante rivolto da Orfeo ad Euridice, necessariamente sospeso sull’abisso che solo apparentemente divide immortalità e morte.
In sintesi, la proposta di Arte-Vita di Vitaldo Conte è esemplarmente espressa dal simbolo che egli ha spesso utilizzato nelle esposizioni, atti performativi ed installazioni, la rosa rossa. Simbolo riconnettivo per antonomasia, erotico nel suo voler riproporre ciò che è stato, trasmette la medesima nostalgia del tango argentino. Rosa antica, perduta “…il suo odore scomparso è la maschera-metafora di un mondo che non si ritrova più tra le apparenze senza profondità del mondo contemporaneo” (p. 92), ma che nella rappresentazione e nell’anelare, può tornare a riproporsi festivamente oltre la malattia moderna. L’arte ultima ed estrema di Conte chiarisce come la Tradizione-origine viva in espressioni e manifestazioni dell’avanguardia.
*Arte ultima, di Vitaldo Conte da poco edito da Avanguardia 21 di Roma (per ordini: info@avanguardia21.it, euro 10)