“Un rivoluzionario europeo deve considerare come un’ipotesi di lavoro un’eventuale lotta armata insurrezionale contro l’occupante americano… Colui al quale questa ipotesi fa paura non è un rivoluzionario. Non è nemmeno un nazionalista europeo. Quando si vuole il fine si vogliono i mezzi. Quando si vuole l’Europa si vogliono tutti i mezzi per farla. Bisogna fin da ora inserire nella lista delle possibilità un’azione di stile Vietnam in Europa…”.
Negli anni ’60 del secolo scorso c’era chi sarebbe stato disposto a morire per l’Europa. Era Jean Thiriart, fondatore di Jeune Europe. Negli anni ’70 tra gli slogan più gettonati c’era il fatidico “Europa nazione rivoluzione”. Negli anni ’80 si scriveva ancora sui muri: “Né Soviet supremo né Coca Cola, Europa unita una nazione sola”. Oggi invece è tutto un fiorire di sovranisti antieuropeisti, fautori del ritorno agli stati nazionali. Eppure, guardandosi prima indietro e poi avanti, appare forse opportuno interrogarsi su quale idea di Europa mettere in soffitta, quale invece rispolverare e ammodernare.
E’ lecito puntare tutto su Trumpismo e Putinismo, oppure è meglio provare ad elaborare (come sempre) nuove idee? Gli stati nazionali più forti invocati da molti e l’Europa Nazione di Thiriart e di tanti altri sognatori, sono le uniche alternative?
Nel ’95, Alain de Benoist pubblicò un saggio dal titolo “L’impero interiore”, in cui parlava di un’altra Europa. Analizzando la storia del nostro continente notava che “l’impero è l’unico modello alternativo che l’Europa abbia prodotto di fronte allo stato nazionale”.
Ecco, l’impero. Non è una parola che va molto di moda e il nome “impero” è oggi pronunciato con diffidenza, in un’accezione prevalentemente negativa.
Eppure – insiste de Benoist – a pensarci bene l’idea stessa dell’attuale processo di costruzione europea “è più debitrice al modello di impero che a quello di stato nazione”. “Il riconoscimento della molteplicità delle fonti del diritto, l’affermazione del principio di sussidiarietà, la distinzione tra nazionalità e cittadinanza, l’iscrizione degli spazi nazionali in uno spazio giuridico che li trascende”, sono tutti elementi ripresi dalla grande elaborazione del concetto d’impero, distillata nel nostro continente da Roma all’Ottocento.
Curiosamente su questa tesi sembra convergere anche il pensiero del sociologo tedesco Ulrich Beck che nel 2010 insieme a Edgar Grande scrive: “(…) l’Europa dev’essere concepita come impero… il processo d’integrazione europeo può continuare con successo solo se l’Europa abbandona deliberatamente la forma-stato e assume il carattere di un impero europeo“. (“Political Theory of the European Union”).
Ma de Benoist specifica meglio:
“L’impero non è un territorio, ma un’idea, o un principio, un’autorità superiore che serve da legame tra i popoli. L’impero non può trasformarsi in una grande nazione senza decadere, per il semplice fatto che in base al principio che lo anima, nessuna nazione può assumere o esercitare una funzione direttiva se non s’innalza al di sopra dei suoi interessi particolari”.
Ma ecco l’essenziale per de Benoist:
“L’impero può esistere solo se animato da un empito spirituale. Senza di ciò non si avrà che una creatura di violenza, l’imperialismo”. “Serve dunque un elemento superpolitico, supernazionalistico, spirituale. L’impero è sacro e l’unità dell’impero non è unità meccanica, ma unità composta, organica, che va al di là degli Stati”.
A questo punto sorge spontanea la domanda da un milione di dollari, anzi di euro. Cosa manca all’Europa di oggi per cercare un’unità vera e profonda e perfino “imperiale” nell’accezione formulata qui sopra? Risponde, disarmante, de Benoist: “Manca l’essenziale: la sovranità politica, l’applicazione reale del principio di sussidiarietà e la presenza di un principio spirituale forte”. Difficile pensare che Draghi e Juncker possano darsi questi obiettivi. Eppure, tertium non datur. L’Europa o rinasce dalle sue ceneri e dai suoi archetipi, oppure non è.
L’impero è solo un’idea che può chiamarsi in tanti altri modi nella modernità (de Benoist parla di impero democratico, in un’Europa federale fatta di popoli e non di nazioni). Interroghiamoci allora su questo, quali sono le idee sulle quali si regge oggi l’Europa, quali archetipi evocano? In sostanza qual è l’identità comune delle tante comunità, dei tanti popoli che formano questo continente così diverso e che della diversità, della diversificazione ha fatto per tanti secoli la sua forza?
Perfino il cardinale Ratzinger, prima di diventar Papa, aveva provato a dare delle risposte, nel suo libro “Europa, i suoi fondamenti oggi e domani” del 2000.
“L’Europa, proprio nell’ora del suo massimo successo – scriveva tra l’altro Ratzinger – sembra diventata vuota dall’interno, paralizzata in un certo qual senso da una crisi del suo sistema circolatorio, una crisi che mette a rischio la sua vita, affidata per così dire a trapianti, che poi non possono che eliminare la sua identità”.
Naturalmente Benedetto XVI, fedele alla sua missione e al suo credo, invocava un ritorno all’identità e alle radici cristiane dell’Europa, che però – come ben sappiamo – non sono le uniche ad aver dato linfa spirituale al nostro continente così carico di passato, ma dal futuro impalpabile. A meno di non essere rivoluzionari.