L’Arte Ultima attorno a cui si snoda l’omonimo saggio di Vitaldo Conte è una suggestione che promana dalle pagine dell’inattuale composizione, senza mai incontrare definizione univoca e monotonica. Perché Arte Ultima significa propriamente pluralismo estetico, trans-gressione artistica, transito esistenziale sempre rivolto all’Altrove della parola. Significa essere consapevoli della verità espressa da R.M. Rilke: «Gli oggetti d’arte sono sempre risultati dell’essere-stati-in-pericolo, dell’essere-andati-fino al limite ultimo di un’esperienza, fino al punto da cui nessuno può procedere oltre»; e, dunque, tentare di oltrepassare pure questo limite, transumanando – per usare un’espressione dantesca – in quell’alterità assoluta che non nell’oggetto, bensì nella sola evidenza dell’evento può trovare sbocco. Nell’epoca dell’estetizzazione totale del mondo, per dirla con Baudrillard, nel regno della bancarotta del senso comune – che per l’arte significa perdere la propria stessa riconoscibilità, con l’attribuzione di valore estetico a oggetti quotidiani, performance e dimensioni di non-arte – Conte aiuta il lettore a ricostruire una geografia del Moderno, rinvenendo possibili percorsi guida entro cui discutere le componenti più interessanti dell’arte contemporanea. Il tema della sinestesia, l’ambizione verso l’opera d’arte totale, l’auratica “vibrazionalità” in opposizione ai feticci e alla reificazione: sono questi gli snodi fondamentali dell’Arte Ultima, che coniuga Tradizione e Avanguardia nella magmatica metamorfosi delle forme.
Segnavia preziosi lungo il percorso di queste estetiche dell’eccesso sono alcune “stazioni” imprescindibili lungo la via del Novecento: il Futurismo, con la sua mistica dell’Arte-Vita, la bellezza dell’esistenza come possibilità creativa, ovvero come «arte-azione, cioè volontà, ottimismo, aggressione, possesso, penetrazione […] proiezione in avanti», sino agli sconfinamenti neofuturisti; il dadaismo di Julius Evola, teorico e pittore di un Dada fondato su libertà spirituale, astrattismo radicale, esercizio nichilistico attivo e, insieme, percorso ermetico e alchemico verso quell’“oltre” della vita che sempre ci seduce; la rielaborazione artistica della figura del Marchese de Sade e della sua scrittura del desiderio: l’erranza della parola che rincorre l’estasi erotica, restituendo «all’uomo occidentale la possibilità di ritrovare, intendere e vivere la propria storia come tragico movimento, inglobante l’altra faccia della ragione»; l’Arte bianca come filone sotterraneo della poetica occidentale, dall’opera suprematista Quadrato bianco su bianco, di Malevic, ai cretti di Alberto Burri, sino ai tagli di Lucio Fontana, estrema soglia espressiva fra visibile e invisibile; la scrittura del corpo, per una ermeneutica non dualista della carnalità e del suo racconto, nelle più diverse manifestazioni artistiche, dalla Body Art all’arte rituale, dal tatuaggio al trucco; l’archetipo della Rosa Rossa, infine, come simbolo del desiderio pulsante.
È così, fra linee tematiche centrifughe e centripete che si risolve la danza della prosa di Conte: attorno alla necessità di un nuovo Mito quale potenza artistica capace di riunire visibile e invisibile, in opposizione al vuoto sperimentalismo e al concettualismo negatore della corporeità. Temi complessi e necessari, che richiedono discussione, ma anche silenzio catartico: «L’attimo del silenzio è anche l’attraversamento di un abisso (…). Questo attimo-borderline rappresenta ancora il limite estremo (…): quello di ricercare un ritorno all’origine, prima di gettarsi come eco nell’abisso stesso, per scoprire che ogni distinzione tra le arti diviene superflua».
*Vitaldo Conte, Arte Ultima, AVANGUARDIA 21, Roma 2016