L’esito referendario all’indomani del 4 dicembre ha fatto emergere – in maniera pressoché inequivocabile – il rifiuto della maggioranza degli italiani nei confronti della riforma costituzionale Renzi-Boschi.
L’intera campagna referendaria è stata caratterizzata da una forte politicizzazione (da parte del premier Renzi, che sin dall’inizio annunciò le proprie dimissioni in caso di vittoria del No, da parte dei suoi avversari, che hanno fatto leva su un voto in chiave antigovernativa) ma anche da tante occasioni di confronto limpido e serio, frutto di un vivo interesse da parte di tantissimi italiani nel capire bene qual era la posta in gioco della riforma. Probabilmente quest’ultima tendenza, per fortuna, alla fine ha prevalso: così, il tentativo di capire meglio la Costituzione è stato un’occasione per riscoprirci comunità, nonostante le tante difficoltà di natura economica e sociale che stanno caratterizzando questo lungo periodo.
Il No e il Sì sono stati quindi caratterizzati da intenti sia politici, sia tecnico-giuridici, e non poteva essere diversamente per una riforma complessa che voleva modificare ben 47 articoli della Costituzione. Ciò che continua a emergere, tuttavia, soprattutto da parte di chi ha voluto respingere la riforma, è l’insofferenza nei confronti della classe politica attuale. Si continua a percepire, insomma, l’idea di un appiattimento delle forze partitiche, che tende ad alimentare una confusione nell’immaginario politico della società, sempre più sfiduciata e incline (anche per questo) a definire negativamente i politici come “tutti uguali”.
Si potrebbe trovare una grande fetta di responsabilità, rispetto a questa concezione ormai diffusa, a partire dai fatti successivi a Tangentopoli: in quell’occasione, con l’intento di debellare la malapolitica della Prima Repubblica, si tentò tra le altre cose di inquadrare il nostro sistema in un forzato bipolarismo. Le prime vittime sacrificate all’altare dell’efficienza furono le forze di centro (che da politicamente “centrali” sono passate a essere l’ago della bilancia dei governi di centrodestra e di centrosinistra). Per il resto, i restanti partiti si reinventarono in mere aggregazioni informi: da forze ideologiche questi sono diventati un mero contenitore elettorale e hanno progressivamente perso la loro funzione centrale nel sistema, non costituendo più un elemento di rapporto vitale fra le istituzioni e il popolo.
I fatti del 1992 potrebbero essere intesi metaforicamente come un “terremoto” politico, le cui “scosse di assestamento” sono state rappresentate (e lo sono tuttora) dall’instabilità delle componenti partitiche dell’ultimo ventennio. Dopo la dissoluzione del Popolo della Libertà, che pretendeva di contenere al suo interno anime politiche con tradizioni inconciliabili, i difetti del partito-contenitore si evincono ora nel Partito Democratico, e la vicenda referendaria probabilmente ne è un sintomo.
La divisione interna ai democratici sulle ragioni del voto ne rispecchia una incongruenza originaria: i sostenitori di Renzi, propendenti per il Sì, sono stati lasciati pressoché soli da una larga parte del resto del partito, quasi tutta appartenente a una tradizione “più a sinistra”, che si è schierata per il No. Al contrario, il Ddl Renzi-Boschi ha trovato molti sostenitori nel fronte moderato, sebbene anch’esso a sua volta spaccato nelle intenzioni di voto. Il fronte comunista, quello leghista e quello delle destre si sono invece schierati nettamente per il No assieme al Movimento Cinque Stelle.
Degli accoppiamenti “insoliti”. Casualità? Ci sarebbe da chiedersi cosa avrebbe votato Matteo Renzi prima del 1992. Sicuramente lo stesso partito di molti suoi amici e di molti suoi avversari come Alfano, Casini e una buona parte dei leader di Forza Italia. Sicuramente un partito diverso, nel suo impianto ideologico, rispetto a tanti suoi colleghi del Pd.
Si arriverà a un nuovo equilibrio? È auspicabile. Ma non è dato sapere quando. È necessario una riassestamento del quadro politico? Probabilmente. Quel che è certo è che l’Italia si trova, attualmente, priva di un’idonea legge elettorale (il c.d. Italicum solo per la Camera, che ha tutte le carte in regola per essere dichiarato incostituzionale dalla Corte nel prossimo gennaio, e il c.d. Consultellum per il Senato). Posto che la legge perfetta, in questo come in tutti gli altri casi, non esiste, è un assunto condiviso il fatto che la normativa in ambito elettorale dovrebbe cercare di bilanciare il più possibile la rappresentatività con le esigenze della governabilità. Soprattutto, non si possono definire aprioristicamente i tratti di una legge elettorale, magari scopiazzandola da altri sistemi, perché essa deve, soprattutto, rispecchiare la cultura politica (anzi, le culture) del suo popolo. Quello italiano si sa, di sensibilità e di sfumature politiche ne ha tante. All’indomani dell’entrata in della vigore Costituzione si partì da questi presupposti, con un impianto parlamentare che privilegiava il più possibile la rappresentatività attraverso il metodo proporzionale, lasciando la capacità di trovare degli accordi di Governo alla responsabilità della classe politica.
L’occasione (anche ma non solo) di una nuova legge elettorale è dunque quella di favorire, meglio di quanto è accaduto dal Mattarellum in poi, le diverse espressioni della cultura politica italiana. Si deve prendere atto della necessità di vere forze di centro, le quali devono decidere cosa essere e cosa non essere, ad esempio se più liberali o più popolari; delle vere sinistre, che ritornino a pensare alle loro autentiche proposte, smarrite nel corso di questi anni; delle vere destre, che rifuggendo dalla “retorica delle ruspe”, riscoprano il loro valore sociale cessando di essere, a tempi alterni, la stampella dei moderati. Il Movimento Cinque Stelle, esperienza unica nel suo genere nel panorama europeo e nato proprio dalla confusione politica degli ultimi anni, non è che uno spontaneo catalizzatore dello scontento popolare, per molti aspetti giustificato. Una maggiore chiarezza identitaria delle forze politiche ne potrebbe decretare la fine.
Si torni, dunque, alla politica della concretezza e della chiarezza, abbandonando le urla e le lamentele gratuite: la società ne ha urgente bisogno.