Un saggio prezioso di Paul Piccone, pubblicato nel 2003, per Ideazione, pregevole rivista di idee e cultura di Mimmo Mennitti, un contributo all’analisi del fenomeno populista
Fino alla sua morte prematura nel 1994, Christopher Lasch è stato uno dei più acuti critici della società americana. I suoi lavori principali, “Rifugio in un mondo senza cuore”, “La cultura del narcisismo”, “L’io minimo”, “Il paradiso in terra”, “La ribellione delle élite”, sono ancora molto letti, e le sue idee – a partire dalla critica delle politiche liberal e della continua crescita delle burocrazie governative, che minacciano l’autonomia dei nuclei familiari – si sono dimostrate molto influenti. Le idee laschiane si rivolgono all’interazione tra la cultura di massa, la crescita dei consumi e il declino dell’autorità morale – che si traduce in patologie della persona – oltre che alla demistificazione del concetto di progresso, nella sua veste di pietra angolare del liberalismo moderno. Le sue analisi attingono a numerose discipline ritenute strumenti necessari per comprendere il cammino della storia, dalla teoria politica alla filosofia alla psicanalisi. L’oggetto centrale e costante delle sue critiche sono state le politiche e le istituzioni che minacciavano l’autonomia individuale e la capacità di partecipazione attiva al processo democratico. Lasch ha visto queste precondizioni di una società libera sistematicamente messe in pericolo dai mass media, dalla professionalizzazione della politica, e dalle politiche federali che erodevano le prerogative politiche delle comunità locali. Egli riteneva che i politici professionisti e le loro burocrazie partitiche, insieme alle élite imprenditoriali e finanziarie, avessero smarrito ogni legame con i valori reali condivisi dal comune cittadino americano.
Lasch mette in luce l’importanza della famiglia americana come locus dell’autorità morale all’interno della comunità e delle sue istituzioni. Egli considera le chiese e le organizzazioni civiche – compresi i ristoranti popolari e le taverne – altrettanti luoghi in cui i valori comunitari sono articolati e il dibattito pubblico viene nutrito, nella misura in cui non vengono inquinati da un welfare state in continua espansione e terribilmente invasivo. Alla base di tutte queste preoccupazioni sta, come spiega nella prima frase del suo più recente libro, la domanda se la democrazia abbia un futuro. Il suo punto di vista riguardo al tipo di condizioni socio-economiche che permettono alla democrazia di funzionare è dichiarato esplicitamente qualche pagina dopo: “La democrazia funziona soprattutto quando gli uomini e le donne agiscono per se stessi, con la collaborazione degli amici e dei vicini, invece di dipendere dallo Stato”. Questa preoccupazione è ciò che sta dietro l’interesse di Lasch per il populismo, il comunitarismo e il federalismo.
Oggi, si fa un gran parlare di ridimensionare il governo – un’ammissione generale che lo Stato non solo si è trasformato in una burocrazia estesa e ingovernabile che indebolisce le risorse del Paese, ma che il suo tentativo di intervenire in ogni genere di problema sociale e volerlo gestire per mezzo del suo apparato di welfare si è rivelato un fallimento spettacolare. Il modello originario del federalismo americano, che è stato sistematicamente disatteso a partire dalla fine della Guerra civile circa un secolo e mezzo fa, era antitetico al moderno Stato-nazione e alla sua imposizione di ipotetici valori superiori attraverso un governo centrale intrusivo e gravido di potere, dei concetti astratti di individualismo, e un insieme di diritti civili o umani che legittimavano ovunque l’intervento statale con lo scopo di irrobustirlo. Storicamente, il federalismo ha enfatizzato, piuttosto che il potere centrale, l’autonomia locale e la governance democratica in quanto detentori di una posizione superiore per esercitare il potere, sia in chiave legale che politica. Lasch ha suggerito la riconsiderazione di un populismo ingiustamente screditato come alternativa politicamente vitale, in grado di sostenere e probabilmente rivitalizzare quell’idea di democrazia che presupponeva l’originario modello federalista americano.
La via populista al comunitarismo
Sia il populismo che il comunitarismo rifiutano il primato dei valori del mercato, per cui qualsiasi cosa viene giudicata dalla prospettiva dell’utile, e del welfare state, che trasforma cittadini autonomi in individui dipendenti non più in grado e disposti ad agire come attori responsabili. In questo senso, il populismo e il comunitarismo non sono allineati né con la sinistra né con la destra, e ancora meno con il Partito Repubblicano o i Democratici per come oggi si presentano. Come afferma Lasch, rappresentano una “terza via”. Questo perché “Il populismo […] accetta senza riserve il concetto di rispetto. […] Il populismo ha sempre respinto la politica della deferenza e la politica della pietà. E’ a favore di un modo di agire sincero e di un modo franco di parlare. Non si lascia impressionare dai titoli e dagli altri simboli di Stato sociale superiore, ma non si lascia impressionare nemmeno dalle pretese di superiorità morale avanzate a nome degli oppressi. Rifiuta un’ “opzione preferenziale” a favore dei poveri, se essa significa trattare i poveri come vittime senza speranza delle circostanze, esimendoli dalle loro responsabilità o assolvendo le loro trascuratezze come se la povertà comportasse una presunzione d’innocenza. Il populismo è la voce autentica della democrazia. Si basa sul principio che gli individui hanno diritto al rispetto finché non si dimostrano indegni di averne, ma esige che tutti si assumano le loro responsabilità. E’ riluttante a fare concessioni o a sospendere il giudizio in considerazione del fatto che “la colpa è della società”. Il populismo è giudiziale”.
Come può una riconsiderazione del populismo farci fuoriuscire dalla situazione presente di impasse, in cui tutte le decisioni vengono prese da un’élite irresponsabile munita di un esile mandato elettorale, in collaborazione con una burocrazia giammai eletta? Quale tipo di istituzioni è necessario per sostenere una società fiorente, con una sfera pubblica rivitalizzata e democratizzata? Queste sono le domande a cui Lasch ha cercato di dare una risposta lungo il corso di tutta la sua vita. Ciò che ha reso il suo lavoro così interessante è che, a differenza della maggior parte degli intellettuali, è stato in grado di operare a due livelli, che di solito non riescono a convivere bene, specialmente nei contesti accademici. Egli è rimasto sempre legato alle questioni politiche concrete, e al tempo stesso – quando era necessario – non ha avuto timore di rivolgersi a questioni ad un livello molto alto di astrazione. In un primo periodo, Lasch ha passato molto tempo cercando di impiegare i concetti psicanalitici come strumenti di analisi. Egli sperava che la psicanalisi potesse spiegare alcuni degli sviluppi recenti degli Stati Uniti. Dopo aver speso una grande quantità di tempo costruendosi un proprio punto di vista in mezzo alla grande mole di letteratura su questa materia, ad ogni modo, è arrivato alla conclusione di essersi cacciato in un vicolo cieco. Poi, per un certo tempo, si è dedicato allo studio delle opere della Scuola di Francoforte – non tanto ciò che era stato pubblicato dopo la guerra, che risultava ancora troppo intriso delle obsolete categorie marxiste e in gran parte non era disponibile in inglese, quanto ciò che alcuni dei suoi membri, in primo luogo Theodor W. Adorno, avevano scritto negli anni Quaranta, prima che molti di loro tornassero in Germania e mentre erano impegnati in discutibili progetti di taglio psicologico come lo studio della “personalità autoritaria” (i cui risultati furono pubblicati in un pretenzioso, e voluminoso, tomo con questo titolo, e che Lasch ha demolito in maniera sistematica ne Il paradiso in terra, anche se questo studio non rispecchia certamente la complessità del pensiero della Scuola di Francoforte).
Ad ogni modo, anche in questi anni Lasch non aveva mai avuto timore di frugare in ogni direzione alla ricerca di nuovi possibili approcci per la ricerca storica. Quando, verso la fine degli anni Sessanta, prima che si disintegrasse definitivamente, la New Left stava disperatamente cercando un teorico “rispettabile” all’interno della tradizione marxista ortodossa per collocarsi in ciò che riteneva la sinistra storica – o perlomeno una sinistra che aveva in un certo qual senso avuto successo in Russia – e cercava di riciclare Antonio Gramsci (a quel tempo praticamente sconosciuto nel mondo anglosassone), Lasch fu uno dei primi ad organizzare un simposio sul pensiero gramsciano e la sua rilevanza per il contesto sociale americano (probabilmente nel tentativo di scoprire un Gramsci radicalmente diverso dalla più ortodossa versione stereotipata che era stata introdotta dal collega di Lasch dell’epoca, Eugene Genovese).
In un’epoca in cui la maggior parte degli storici americani ancora pensavano che Gramsci fosse probabilmente un’altra marca importata di pasta, questo tentativo non portò da nessuna parte, dopo aver concluso che, a partire dal 1935, con il suo famoso saggio su Americanismo e fordismo, Gramsci aveva effettivamente abbandonato qualsiasi illusione sulla possibilità di una rivoluzione in Occidente – un qualcosa che molti epigoni marxisti, specialmente in Inghilterra quelli legati alle riviste New Left Review, Capital and Class e Economy and Society devono ancora comprendere mezzo secolo dopo. Come risultato della sua costante enfasi sulla concretezza, Lasch non è mai rimasto invischiato in alcuna particolare ideologia o prospettiva teorica, mentre ha sempre attentamente valutato il loro valore euristico. Ciò gli ha permesso di affrontare i problemi concreti da un certo numero di prospettive relativamente sofisticate, senza mai perdere di vista le limitazioni di ciascuna teoria o ideologia di fronte ad una realtà sociale recalcitrante. Certamente, egli ha fatto proprie molte delle critiche usualmente rivolte al liberalismo, al progresso e a molte altre idee sviluppate in un gran numero di discipline.
Alcune di queste critiche lo hanno spinto in nuove interessanti direzioni. Così, prendendo sul serio la critica del progresso, ha riscoperto la tradizione populista americana. La maggior parte degli accademici, in special modo quelli con inclinazioni di sinistra, leggono, ad esempio, Walter Benjamin, le sue ben note tesi sulla storia e la riproduzione meccanica, e ancora continuano a fantasticare sul “progresso” e sulle politiche “progressiste” in quanto automaticamente superiori a tutte le altre. Lasch ha sempre considerato questo discorso come parte di un’ideologia illuministica da lungo tempo screditata: un’insostenibile visione da cristianesimo secolarizzato non più ancorata in alcuna rivelazione trascendentale, e così incapace di avere un qualsiasi impatto normativo; trae le sue origini da Adamo ed Eva ma, anziché finire in paradiso, come sostiene Adorno, finisce nei recinti dei Gulag, di Hiroshima o Auschwitz. Di conseguenza, Lasch non ha esitato a identificare il mito del progresso come uno dei principali puntelli per la Nuova classe di professionisti, esperti, politici o, nelle parole di Robert Reich, “analisti simbolici”, il cui status socio-economico privilegiato viene giustificato dal loro supposto ruolo nella razionalizzazione della società e nella garanzia di costanti miglioramenti sociali.
A differenza dei marxisti e di altri “progressisti”, che sono sempre pronti ad abbandonare tutti i fallimenti nelle politiche e nei progetti di ricostruzione sociale nella proverbiale “pattumiera della storia”, il congedo di Lasch dal progresso come ideologia dell’Illuminismo lo ha spinto a valorizzare come miniera in cui riscoprire un intero patrimonio storico ciò che i marxisti consideravano un deposito di vecchiume storico. Ben lungi dal considerare i progetti storici falliti alla stregua di una paccottiglia buona solo per la ricerca archeologica, Lasch li considerava alternative possibili al modello predominante di organizzazione socio-politica. Nei trent’anni precedenti, prima che Lasch, Lawrence Goodwyn e pochi altri storici non-conformisti cominciassero a studiarlo, il populismo veniva di solito ridotto dai principali scienziati sociali e intellettuali americani in generale, ad un movimento proto-fascista – una sorta di vicolo cieco della fine del XVIII secolo che divenne razzista, xenofobo e di destra, prima di scomparire dal quadro politico. Con buona probabilità, le migliori caratteristiche del populismo sono state assorbite dal progressivismo di inizio secolo, che ha prefigurato il successivo Welfare State e il New Deal.
Questo è il genere di resoconto che troviamo in Seymour Martin Lipset e nel resto degli ideologi della “fine delle ideologie” – incluso il maestro di Lasch, Richard Hofstedter, nei cui confronti Lasch ha sempre nutrito un grande rispetto, ma che non ha esitato a criticare ogni volta che lo ha ritenuto necessario. Esso era ciò che John Kenneth Gailbraith prendeva in giro come il punto di vista convenzionale dei principali scienziati sociali, storici e intellettuali durante gli anni Cinquanta, che associavano costantemente il populismo a Joe McCarthy, il reazionarismo e l’irrazionalismo della destra anticomunista. Tutto questo ha fatto in modo che scomparisse qualsiasi seria discussione politica o teorica del populismo. Si può infatti scorrere l’intera letteratura del secolo precedente senza trovare un solo serio tentativo di capire il senso di quel movimento. Tutto ciò che si può trovare sono illazioni, disinformazione, insulti e stroncature sommarie. Prima di Lasch e Goodwyn, nessuno osava accostare il populismo alla democrazia diretta: un autentico fenomeno americano che incorporava il meglio di ciò che rappresentavano gli Usa. I politologi liberali solitamente seguono Bobbio nel rifiuto di qualsiasi forma di democrazia diretta in quanto impraticabile, senza considerare se la democrazia rappresentativa, o ciò che oggi va sotto questo nome, sia davvero democrazia.
Democrazia e libertà locali
Un’analisi accurata del perché il populismo emerse quando emerse (subito dopo la Guerra civile, quando il nation-building divenne il principale obiettivo del governo), per poi scomparire con lo sviluppo del progressismo all’inizio del XX° secolo aiuta a spiegare molto di quello che accadde dopo: la professionalizzazione della società, l’affermazione della Nuova classe, e la perdita sistematica di potere delle comunità e delle forme di autogoverno locale. All’inizio, il populismo fu una reazione alla centralizzazione del potere, durante le crisi economiche che seguirono alla Guerra civile, quando le comunità locali si ritrovarono non in grado di controllare il proprio destino così come avevano fatto durante la prima metà del XIX secolo. Questa centralizzazione del potere finì per trasformare cittadini responsabili in clienti dipendenti incapaci e nemmeno disposti a sostenere le istituzioni democratiche che, come risultato di ciò, si sono gradualmente degradate a quel genere di competizione per la popolarità mediatica quali sono divenute oggi. La partecipazione ai processi decisionali è scarsa, e davvero poca è la spinta popolare nella formazione dell’agenda politica. Nel complesso, oggi ciascuno di noi parla della democrazia, ma davvero pochi hanno delle idee concrete riguardo a cosa voglia dire praticare la democrazia, oltre la routine plebiscitaria della scelta tra due gruppi di candidati già preselezionati dagli apparati di partito. Christopher Lasch è stato il primo a vedere questa situazione per quello che era. A differenza di Goodwyn, che ha ricostruito una storia molto interessante che, però, lo porta ad accantonare il populismo come un’esperienza storica conclusa, Lasch intravedeva la possibilità concreta che il populismo potesse divenire un potenziale movimento che prometteva di ricostruire la democrazia americana.
Parliamo di qualcosa di completamente differente dal modello europeo. La tradizionale democrazia americana – la democrazia partecipativa – ha un carattere locale, caratterizzato dalle interazioni faccia a faccia, ed è molto differente dal modello burocratico che distrugge ogni possibilità di comunicazione, dà potere dalla Nuova classe, e trasforma la corruzione in un modus operandi standard in assenza del quale la società non può funzionare. Uno non ha bisogno di guardarsi molto intorno per vedere ciò che è accaduto in Italia, dall’operazione Mani pulite alle più recenti rivelazioni di Berlusconi per comprendere che la società italiana si sarebbe bloccata senza quelle pratiche di corruzione sempre condannate ma assolutamente essenziali. Data questa situazione complessa, che non è semplicemente un’idiosincrasia italiana ma, anche se in misura minore, una procedura operativa comune a tutte le società post-industriali avanzate con potenti governi centralizzati, la critica di Lasch comincia ad acquistare un senso profondo, pur non essendo essa stessa priva di contraddizioni interne. Così, il primo capitolo de “La ribellione delle élites” si apre con la messa in stato d’accusa dell’attuale stridente separazione tra il popolo e gli intellettuali, e con il tentativo di superare il problema. Ma quali sono a questo punto le possibilità di riattivare la partecipazione diretta e la democrazia diretta, ridestare la cittadinanza, incoraggiare la responsabilità ecc.? Lasch sviluppa una critica dei valori predominanti e del relativismo diffuso, che sono divenuti la religione ufficiale del mondo accademico. Cerca di difendere i valori e i costumi tradizionali, e il particolarismo delle comunità. In poche parole, cerca di riportare in auge l’originale modello americano di organizzazione sociale, spesso mal compreso se non del tutto dimenticato.
In realtà, perché gli Stati Uniti sono stati creati come “federazione” e non come “nazione”? La risposta è ovvia. Si voleva salvaguardare la sopravvivenza di quell’eterogeneità assiologica all’epoca tipica del Nuovo mondo, in modalità radicalmente differenti dalle contemporanee “politiche multiculturali” in cui la differenza viene amministrata da un governo centrale che in ultima istanza decide su quale può essere considerata una “differenza” accettabile e quale no. Essa si riduce ad un progetto di omogenizzazione in cui le differenze o vengono represse (ad esempio la poligamia) o marginalizzate fino all’irrilevanza (la gastronomia, il folklore ecc.). Lasch riconosce l’importanza dell’eterogeneità dei valori, la cui eliminazione non significa la sostituzione di un insieme di valori da parte di un altro insieme, ma il nichilismo e il cinismo; successivamente, però, nello stesso libro, a poco a poco si fa strada una speranza riguardo allo sviluppo di valori comuni: i valori nazionali. La tesi di Lasch è che la vera democrazia diretta permette alla gente di comprendere, discutere ed articolare le differenze e, in ultima istanza, si traduce in un insieme di principi e valori condivisi che, se efficacemente interiorizzati, spianerebbero la strada ad una società fiorente.
Così, Lasch non ha mai davvero messo in discussione il concetto di nazione e la misura in cui sta divenendo rapidamente obsoleto. Mentre i recenti avvenimenti successivi all’11 settembre hanno spinto furiosamente alla riaffermazione dell’unilateralismo americano, allo stesso tempo questi avvenimenti non costituiscono alcuna rivendicazione di quel particolarismo nazionale tipico dell’isolazionismo tradizionale. A differenza di ciò che pensano gli europei, e che rappresenta una delle ragioni principali del crescente anti-americanismo, il Nuovo Ordine Mondiale difeso da Washington non implica ovunque l’imposizione dei valori statunitensi, né la creazione di un impero al cui interno le altre nazioni dovrebbe automaticamente ridursi a vassalli. Nonostante tutta la retorica sulla democrazia, la cupa visione dell’amministrazione Bush deve essere interpretata all’interno dell’orizzonte residuale dell’America ante bellum, che cerca di estendere su scala planetaria quel “modello americano” originario che, nonostante le sue pie intenzioni, senza volerlo l’amministrazione sta sistematicamente demolendo attraverso una nuova, massiccia centralizzazione del potere (presumibilmente legittimata dalla “guerra al terrore”).
Il Nuovo Ordine Mondiale non significa l’imposizione della “democrazia americana” ovunque. Sebbene le organizzazioni governative internazionali si siano ridotte a carrozzoni immensamente inefficienti, spreconi e veri e propri ostacoli, spesso controproducenti, per gli obiettivi che si dice dovrebbero perseguire, il Nuovo Ordine Mondiale semplicemente cerca di garantire l’effettuabilità delle relazioni di mercato (la globalizzazione), nel rispetto delle autonomie locali. In questo contesto, il concetto tradizionale della nazione con i suoi propri valori e la sua particolarità non conserva più molto senso, almeno nella misura in cui l’ordine globale, nel suo farsi esternamente su scala planetaria, tende anche a riprodursi internamente. All’interno di questo contesto globalizzato e post-nazionale, la speranza di Lasch di sviluppare dei valori “comunitari” non è solo donchisciottesca ma anche controproducente, di fronte al progetto di ricostruire il particolarismo e l’autogoverno delle comunità. Dopo tutto, la nazione ha rappresentato sin dall’inizio un progetto della Nuova classe – un fenomeno post-borghese che intendeva spostare il potere dal capitale finanziario dei proprietari al capitale sociale degli intellettuali, dei politici e dei burocrati incaricati di gestire lo Stato. Lasch descrive efficacemente come i valori particolari delle comunità vengano sistematicamente distrutti non solo nel processo di nation-building ma anche, e in modo più significativo, dall’espansione dell’economia di mercato. In realtà, egli ritiene che nell’ultimo secolo e mezzo i liberal si siano impegnati nella controproducente missione di costruire un forte Stato proprio per contenere l’impatto distruttivo del mercato, contribuendo però essi stessi ad un’ulteriore erosione del particolarismo, dell’eterogeneità e dell’autodeterminazione.
Se, storicamente, è stato lo Stato a creare la nazione, piuttosto che il contrario, allora il desiderio di un insieme solido di valori nazionali finisce per essere parte e tassello del progetto di “modernizzazione” della Nuova classe. Così, le nazioni moderne sono in fin dei conti entità artificiali, molto simili al Dipartimento dell’educazione del vecchio Dipartimento degli Stati Uniti per lo Sviluppo urbano – e sembrano anche creare più danni sociali dell’insieme di queste burocrazie. Ciascuna “nazione-realmente-esistente” come la Germania, la Francia, l’Italia, ecc. finisce sempre per essere la creazione della Nuova classe per realizzare una particolare agenda politica, e per distruggere le culture particolari e le autonomie locali. Lo Stato centralizza sempre il potere in luoghi come Berlino, Praga, Parigi o Washington, trasformando la gente che vive nelle periferie in tanti irrilevanti “provinciali” senza alcunché da dire di socialmente, economicamente o politicamente rilevante. Da una forma di organizzazione politica, la democrazia si tramuta in un meccanismo di legittimazione della Nuova classe. Come conseguenza, i progetti concreti di ricostruzione sociale che Lasch prefigurava non possono essere realizzati come parte di un più ampio progetto di nation-building. Il progetto di ridestare lo spirito del populismo americano può solo essere inquadrato nei termini della ricostruzione di un federalismo solido preoccupato di riattribuire potere alle comunità locali, ristabilire la loro autonomia e sovranità in linea con i vecchi articoli della Confederazione, vigenti prima che con la Costituzione americana nascesse la federazione americana.
Oggi, particolarmente negli Stati Uniti, qualsiasi discussione concreta dei valori tradizionali, delle norme interiorizzate, della democrazia diretta e dell’autogoverno che non tenga conto dell’analisi di Lasch dell’importanza della democrazia e della cittadinanza partecipative e dell’interazione faccia a faccia, non solo non offrirebbe un quadro completo di come queste idee si sono sviluppate storicamente in particolari contesti socio-economici, ma non sarebbe in grado di prendere in esame tutte le possibili alternative all’attuale sistema socio-politico, denso di contraddizioni. Cosa ancora più importante, dovrà enfatizzare il localismo e guardare oltre quella mastodontica impresa denominata Stato-nazione, che è ormai priva di senso, essendo troppo grande per affrontare i piccoli problemi e troppo piccola per quelli grandi. Sfortunatamente, questi compiti vengono di solito lasciati agli intellettuali della Nuova classe che, non sorprendentemente, li rendono inevitabilmente parte della loro propria agenda e, alla fine, devitalizzano qualsiasi sentimento populista possa esservi dietro. Nulla esemplifica meglio questo ragionamento del miserabile destino del recente tentativo italiano di ripensare ed istituzionalizzare nuove strutture federali.
(traduzione di Angelo Mellone. Da Ideazione 4-2003, luglio-agosto)