La tocca piano il nuovo numero di “Storia in Rete”, il mensile diretto da Fabio Andriola. Mentre le televisioni ci sommergono di documentari sui “bravi barbari” e i “cattivi romani”, mentre perfino i libri di scuola rincitrulliscono gli studenti con le “migrazioni barbariche” e “l’integrazione”, il mensile ribadisce alcune verità oggi negate sulla fine di Roma. E lo fa a partire dalla ristampa di un saggio francese sugli ultimi due secoli dell’Impero, il cui enorme successo di vendite fa ancora sperare che non tutti abbiano messo il cervello all’ammasso: “Gli ultimi giorni dell’Impero romano”, di Michel De Jaeghere (LEG). La tesi di De Jaeghere è che Roma ha condannato se stessa alla rovina quando ha abbandonato le sue virtù primigenie: pietas, l’adesione alla legge degli antichi e degli Dei, e fides, la virtù del rispetto della parola e della benevolenza verso i deboli e gli sconfitti.
Un abbandono che è avvenuto molto prima della caduta. Già alla fine della Repubblica se ne avvertivano gli effetti, che man mano aumentarono con l’Impero, perfino nel secolo d’oro degli Antonini: scarsa natalità (difetto di pietas, poiché non si considera più l’avere un figlio come l’assolvimento di un dovere verso i genitori, verso gli antenati e verso la Patria), disaffezione per le armi (difetto di pietas, poiché si preferisce l’egoistica vita borghese alla difesa della patria), corruzione (difetto di fides, poiché si perde il senso dell’onore) e ancora fine della volontà di espansione dell’Impero (difetto di fides, poiché si rinuncia alla missione civilizzatrice di Roma).
Il combinato disposto di questi vizi trasformò l’Impero in un gigante malato, la cui cura – spiega l’articolo di Emanuele Mastrangelo – fu peggiore del male: l’immigrazione di milioni di barbari all’interno del Limes. “I barbari fanno i lavori che i romani non vogliono più fare”, un refrain vero allora come oggi. I barbari furono la risposta al calo demografico, alla mancanza di braccia per le legioni (una vera industria, non solo una forza armata da tenere in caserma) e per l’agricoltura, alla corruzione delle classi dirigenti e al loro ripiegarsi sugli affari privati a discapito della res publica. Ma la medicina fu una droga: ben lontana dal risolvere i problemi li incancrenì e i “medici” di allora – come quelli di oggi – non ebbero migliore idea che aumentarne le quantità. Finché l’overdose fatale non condusse a morte il paziente…
Una storia che sembra ripetersi tal quale oggi, come dimostra Giovanni Vasso nell’analisi della “grande sostituzione”. Un piano ben lontano da ogni “complottismo”, ma sotto gli occhi di tutti nei documenti dell’ONU e nelle dichiarazioni dei politici, nero su bianco.
Altre sorprese riserva il numero in edicola in questi giorni: un’esclusiva inchiesta di Roberto Festorazzi su Togliatti e le delazioni del PCd’I per eliminare gli oppositori interni o i comunisti rei di scarso entusiasmo verso Stalin. Delazioni fatte al nemico giurato del Comunismo: l’OVRA di Mussolini… E ancora, continua la polemica con i neo-borbonici con la tesi di Aldo A. Mola che il Regno delle Due Sicilie era un malato terminale che sarebbe caduto comunque; un nuovo libro fotografico su Piazzale Loreto che smentisce alcune delle affermazioni degli autori della “macelleria messicana” del 29 aprile 1945; un’inchiesta sulla morte del prefetto di Zara, Vezio Orazi, ucciso da un agguato partigiano in Dalmazia nel 1942; un ritratto del padre della parola “genetica”, William Bateson; un viaggio nella città dell’oro, il centro delle carovaniere nel Marocco medievale: Sigilmassa; un articolo dedicato a una singolare teoria: e se le cronologie ufficiali fossero sbagliate in eccesso di almeno settecento anni? Una tesi incredibile, se non fosse che a sostenerla c’è un pezzo da novanta dell’accademia tedesca: il professor Gunnar Heinsohn.
E infine i berserkir nordici, fra mitologia e analisi filologica delle fonti storiche e il Premio Acqui Storia, che quest’anno è andato proprio ai documentari de “La Storia in Rete”.