Riportare in scena la Festa di Montevergine di Raffaele Viviani, per di più dedicandola alla memoria della grandissima attrice Luisa Conte, è responsabilità da far tremare i polsi. Perché a dirsi sembra facile ma tenere altissima la bandiera del teatro autenticamente popolare di Napoli, in tempi oscuri in cui della città non si può parlare se non per noiosissimi luoghi comuni o per ostentare sozial da tre soldi, è impresa non da poco.
Al Teatro Sannazaro di Napoli, che deve la sua rifondazione proprio a Luisa Conte, è andato in scena (dal 19 ottobre al 10 novembre) il capolavoro di Viviani per la regia di Lara Sansone, che tra l’altro s’è cimentata anche nel ruolo difficilissimo, centrale e decisivo de ‘a maesta attorno a cui gira la ruota di inghippi, misteri, lazzi, tradimenti nascosti e corna svelate del canovaccio della commedia. Per le recite il Teatro s’è trasformato in un’autentica cantina dei tempi andati. Via le poltroncine di velluto rosso, ecco i tavolacci da osteria, i fiaschi di vino e le ceste di taralli (generosamente offerte durante lo spettacolo). Idea azzeccatissima che trascina lo spettatore dentro lo spirito della festa più devotamente pagana della cristianità cattolica. E gli fa capire subito che qui si fa sul serio.
Il pellegrinaggio a Montevergine è lirica vera, commovente e fanfarona allo stesso tempo. Sfida, gioco e abbandono totale all’arbitrio della divinità. L’ostentazione di un’umiltà che diventa sbruffona per devozione, concetto difficilissimo a spiegare e a comprendersi se non si conosce l’anima profonda delle genti del sud e del culto della Signora di Monte Partenio. Mamma Schiavona, la chiamano da tempo immemore i suoi devoti: è la Madonna Nera patrona dei popolani, dei contadini, degli schiavi, degli ultimi, dei femminielli che come novelli coribanti le dedicano rumorose e pittoresche tammurriate. Già prima che il cristianesimo s’imponesse anche sul monte Partenio di Avellino, lei era Cibele, epifania pagana del culto immortale, immobile, infero e allo stesso tempo vitalistico e orgiastico della madre terra. Comunque la si invochi, da millenni Ella esige dai fedeli totale abbandono e una fede cieca nel ribaltamento dei ruoli che è preciso dovere da nel rito del pellegrinaggio a lei dovuto.
Viviani ritrae il pellegrinaggio dei “cittadini” che si caricano sulle carrozze ai viaggi a piedi scalzi dei cafoni alla ricerca della grazia di un po’ di pioggia. Il ribaltamento dei ruoli, gli uomini che si fanno cavalli (‘o tiro a tre), i devoti che ne magnificano la potenza miracolistica, le prese in giro dei cunti e l’assoluto abbandono (appunto) nella fede sublimato nella supplica. Ci ha messo dentro tutta la tradizione millenaria che, fiume carsico, si manifesta sempre uguale a se stessa dove meno te l’aspetti. Perché il rito del pellegrinaggio non finisce al Santuario, anzi. All’andata e ancor di più al ritorno, la Vergine esige onori paganissimi come i baccanali a Nola, come le ancestrali sfide dei canti a figliola – duelli musicali a botta e risposta tra i capintesta dei cantatori – in cui tutto è lecito, pure rimproverare a un avversario che si tiene la moglie di un altro.
Scelta che non può essere casuale. Perché, da Omero a Shakespeare, tutto il mondo gira attorno a storie di corna (in questo caso quelle de ‘o vrennaiuolo – nome dell’antico mestiere che sta per il venditore di biada – la cui consorte spesso e volentieri si intrattiene con don Rafele che, a sua volta, pur di regalarle gioielli che non si poteva permettere ha quasi dovuto dichiarare bancarotta).
Ma di genio parlavamo e perciò Viviani sembra cogliere – eppure era il 1928 quando la compose! – che tutta quell’orgogliosa comunità plebea sarebbe stata dalla modernità trasformata in una nebulosa pulviscolare di atomi piccolo borghesi. Dopo il grandioso primo atto in cui lo splendore della Madonna regala ispirata liricità persino alla maliziosa, cinica e svampita maesta, e il secondo in cui al tavolo del ristorante si consuma un pranzo delle beffe culminato nella sfida del (sublime) canto a figliola (con rissa finale), la commedia termina, come sottolineato da azzeccatissima scelta della regista, in una stanza da letto. È in fondo un progressivo ritirarsi dagli spazi maestosi dello spirito e della comunità al pudore (falso e ipocrita quanto basta) del talamo nuziale, magari quello degli altri. Come un viaggio a ritroso dall’immensamente grande allo spaventosamente piccolo che poi è stato il percorso obbligato (?) dell’uomo negli ultimi decenni del nostro sciagurato tempo.
La Festa di Montevergine è perciò il trionfo della tradizione e un racconto che parla, forse senza volerlo, di un popolo che sta cambiando. Uno specchio che scintilla dei mille e mille riverberi di quel magma umano che solo un genio, appunto, poteva plasmare in figurine più preziose delle porcellane di Capodimonte perché sono vive da sempre e lo saranno per sempre. Risuonano in essa canti argentini, pesanti o soavi nelle infinite modulazioni musicali e stilistiche di un idioma che giunge da lontano, almeno dall’Atellana degli antichissimi Osci, e che oggi è ingiustamente violentato dai suoi stessi immemori madrelingua.
Solo un genio come il commediografo napoletano poteva disegnare un così perfetto ritratto popolare incastonandolo nel racconto vivido della sua stessa devozione. E Viviani, più di tanti altri, merita di stare nell’Olimpo dei grandi per essere riuscito a descrivere i caratteri immutabili e eterni della tradizione mediterranea.
La regista e impertinente maesta, Lara Sansona, la sorella Ingrid (seducente e maliziosa farenara), Lucio Pierri (divertentissima maschera di marito mazziato che è ‘o sanguettaro), Ciro Capano (il burbero ma drammaticamente inconcludente e cornuto vrennaiuolo), Matteo Salsano (quell’inguaribile e instancabile bugiardo tracotante e traditore di don Rafele Attunaro), sono solo alcuni dei principali artefici dell’incanto popolare, tradizionale e perciò incantevole di una grandissima pagina di teatro italiano.
L’allestimento teatrale al Sannazaro non poteva rendere maggiormente giustizia a un capolavoro del genere. E migliore omaggio alla grandissima Luisa Conte (impareggiabile “maesta” in centinaia e centinaia di recite), all’immenso Raffaele Viviani e alla santissima Madonna di Montevergine non poteva essere fatto.