«Se qualcuno pensava di scoraggiarmi, ha sbagliato di grosso. Resto qui e sono più determinato di prima». Silvio Berlusconi esce più forte che mai dalla manifestazione di Brescia. La sua è una vittoria che vale, ancora una volta, su tutta la linea: mediatica, numerica e personale. Sì, proprio personale. Anzi, personalissima. È riuscito a far passare come una emergenza di tutto il paese le proprie vicende giudiziarie. Tutto ciò grazie al contributo di certi segmenti della magistratura politicamente troppo “sgamati”. Ma anche di un sistema giustizia, quello nostrano, assai sofferente. Non è il momento però soffermarsi su di una analisi dettagliata del problema e neanche sull’uscita davvero bizzarra del Cav di paragonarsi a Tortora, non fosse altre perché del conduttore di Portobello l’innocenza è stata dimostrata da tempo.
C’è lo stesso però da registrare un dato straziante: con i 50mila di Brescia, Berlusconi ha vinto, e neanche tanto di misura. Se c’è una parte sconfitta, non è composta da quei contestatori, che anche con la forza, hanno cercato d’impedire al Pdl di manifestare. La vera sconfitta è la destra, quella dei colonnelli tiepidi e dei generali bislacchi. Se prima l’odio di piazza era per “i fasci”, ora è tutto per Silvio. Sembrerà un dettaglio cromatico, ma il tramonto della destra novecentesca, passa pure dai quei rigurgiti d’intolleranza che hanno cambiato indirizzo. Questo perché quella stessa destra politica che oggi non c’è più, non è riuscita per ben vent’anni a dire qualcosa di significativo sulla Giustizia, lasciandosi imporre, su di una tema di primaria importanza, l’agenda privata di Berlusconi.
Un peccato difficilmente da espiare. Vale soltanto un criterio per cogliere la portata di questo dramma: Berlusconi – al di là dell’accanimento giudiziario conclamato nei suoi confronti – continua a non avere un’ idea certa di giustizia; mentre Fini e i suoi colonnelli, almeno sulla carta, l’avevano. Basti pensare che il fascio, quello repubblicano, era innanzitutto un simbolo di giustizia umana e divina. Non è qui però in gioco una questione di simboli, ma di esempi: uno su tutti conta quello di Paolo Borsellino. Anche qui, però, non bisogna scivolare nella retorica, ma tenere alto uno stile. Che, tanto per non sbagliare, è venuto a mancare.
Proviamo, almeno una volta, a essere realisti. Qual è oggi l’idea di giustizia che la destra dovrebbe consegnare al paese, la solita tiritera sulle toghe rosse? Suvvia, speriamo di no. Anche perché, proprio su questo punto, dovrebbe essere ridefinito un criterio: non è mica colpa della sinistra se, negli ultimi trent’anni, i camerati laureti in giurisprudenza hanno preferito la via della libera professione forense, ritenuta più gratificante in termini economici, anziché quella più impegnativa della magistratura. Ci sarebbe voluto il “partito” a vigilare su questo trend. Così non è stato. Forse perché ci si è sentiti per troppo tempo in colpa e bisognosi di una difesa perenne. Ora però non piangiamoci addosso.
Facciano dunque un bel mea culpa generale. E noi con loro. Ricordando che senza una idea precisa di Stato, e quindi della giustizia, una vera destra non è affatto ipotizzabile. Qui non si tratta di abbracciare il cancro giustizialista, che nei fatti ha privato di legittimità il ruolo delle toghe, o di gettarsi a capo fitto in un garantismo troppo accondiscendente con le ragioni di chiunque. Si tratta semmai di elaborare una proposta che abbia al centro il buon senso. Le vittorie comunicative di Berlusconi, ancora oggi, possono essere battute (o sfruttate, che è più onesto) solo a fronte di una opzione autorevole e moderna, nel senso di efficiente, rapida e certa, della stessa Giustizia. Vale, oggi più che mai, la proposta e non la protesta. Ma, nel caso della destra di governo, per vent’anni, sono mancate entrambe le voci.