Di crisi si parla da allora. Dagli anni settanta, gli anni dell’Austerity, dello Shock Petrolifero, delle olimpiadi di Monaco, del terrorismo in Europa, del punk in Inghilterra, della fine del Sessantotto nel 1978, gli anni di Piombo, gli anni del settantasette. Gli anni settanta sono un decennio funzionale per capire il presente storico, sociale ed economico, in cui viviamo, se depurati dalle tinte fosche della retorica. Sono gli anni che hanno aperto la strada a chi voleva dirsi Imprenditore di se stesso, che avrebbe beneficiato del così detto new public management degli anni successivi. Ed è dagli anni settanta che si inizia a parlare di crisi economica, facendola diventare un leitmotive. La crisi diventa un elemento tipico della nostra società, da momento a fenomeno ricorrente. Si produce la crisi per governarla, diventando il principale fattore di ordine sociale. Si passa da capitalismo della produzione a capitalismo della speculazione. il concetto di cui si fa portatore il libro di Boltanski e Chipello, Il nuovo spirito del capitalismo (edizioni Mimesis) è il passaggio ad una nuova forma di capitalismo. Si passa infatti da capitalismo della produzione a capitalismo della speculazione, producendo una ideologia dell’imprenditorialità che comporta un cambiamento dello spirito di questo fenomeno. Misurare l’oggi, misurare una società atomizzata, porta alla molteplicità dei punti di vista, al punto che diventa difficile focalizzarsi su un qualsiasi oggetto per farlo diventare un parametro.
Secondo il sociologo Robert Castel (autore di libri come L’insicurezza Sociale, considerati di culto al fine di misurare l’inquietudine contemporanea con le lenti delle scienze sociali) è oggi necessaria non una redistribuzione della ricchezza intesa come insieme di beni materiali, ma una redistribuzione di beni non materiali quali la pace, la sicurezza e la tranquillità. Da circa trent’anni a questa parte, sostiene Castel, ci troviamo in una società fortemente individualizzata, in cui le reti sociali tradizionali sono state smantellate, creando una serie di atomi soggetti ad un’autodeterminazione forzata. Ci troviamo dunque in una società postmaterialista. Insieme alle reti sociali tradizionali, tuttavia, anche il welfare, visto come l’apice del funzionamento dei modelli democratico-liberali, e ha subito un processo di sgretolamento. Procediamo con ordine.
Welfare State significa Stato assistenziale (o Stato sociale) ed è una caratteristica dei moderni stati di diritto che si fonda sul principio di uguaglianza. Dopo la seconda guerra mondiale, il welfare italiano è stato l’espressione della terzietà dello stato, visto come unico difensore dei beni comuni. Tale tendenza è proseguita attraversando il boom economico e l’austerity dei primi anni settanta, passando da una vertiginosa ascesa che ha trasportato l’individuo verso un consumismo stellare, per poi arrivare a schiantarsi e a schiantarlo contro le prime amare crepe dello shock petrolifero. Successivamente però il welfare viene considerato come uno degli strumenti principali del freno del sopracitato progresso economico, viene visto come un muro di gomma insormontabile In una fase di crisi economica il welfare state diventa economicamente insostenibile, apparendo come un’enorme monolite, espressione di una burocrazia che limita e standardizza i bisogni individuali.
Viene considerato come un dato oggettivo, una spugna che assorbe risorse che andrebbero impiegate per la crescita economica. Per chi si ritiene imprenditore di se stesso tutto ciò è una rovina.
La libertà di autodeterminarsi diventa libertà di fare impresa libertà, dunque, di diventare imprenditori di se stessi. “Meno stato, più mercato”, questo è il leitmotive dei governi conservatori. Si verifica dunque una delegittimazione della funzione pubblica dello stato in materia di servizi. Ma esso non si riduce, modifica solo le funzioni. Rimane lo stato centrale, con in mano i cordoni della borsa. “E’ il mercato, bellezza!” direbbe qualcuno.
Subentra un’ennesima parola chiave, Accountability che riassume i compiti che lo Stato deve ottemperare dal momento che detiene poteri che determinano il modo in cui la spesa pubblica deve essere utilizzata e giustificata.
Si verifica anche un cambiamento semantico. I cittadini diventano proprietari e assegnano il compito allo stato attraverso le tasse. Subordinazione delle scelte alla tutela dei conti. Con il principio della parità di bilancio, si dice addio ai criteri di giustizia sociale. Ma diventa davvero efficiente sacrificarla in nome del mercato?