…Noi pochi, noi felici pochi, noi manipolo di fratelli;
poiché chi versa oggi il suo sangue con me
sarà mio fratello; per infima che sia la sua nascita
questo giorno nobiliterà il suo rango;
e gentiluomini ora a letto in Inghilterra
si considereranno maledetti dal destino per non essere stati qui
e terranno a vile il loro valore mentre parlerà
chiunque abbia combattuto con noi il giorno di San Crispino[1]
Il 25 ottobre 1415, seicent’uno anni orsono, nella giornata dei Santi Crispino e Crispiano re Enrico V d’Inghilterra vinse sul campo di Azincourt le truppe gigliate del sovrano di Francia. Tale battaglia è da considerarsi, accanto a Hastings, a Trafalgar, a Omdurman, alla battaglia nei cieli della Manica e di Londra[2], tutte battaglie storiche per Inghilterra, una di quegli eventi che ne hanno forgiato l’identità plurisecolare, sebbene re Enrico non goda della fama dell’ammiraglio Nelson o di Lord Kitchener .
La guerra infuriava da ormai quasi ottanta anni insanguinando i campi di Francia: ancora era lontano il giorno in cui la Pulzella d’Orléans, pastorella di Lorena illuminata dalla Vergine, avrebbe guidato alla vittoria le schiere francesi. E ancora più distante l’alba in cui il tradimento l’avrebbe consegnata al martirio. Questo è il palcoscenico storico che l’immaginazione del pubblico dovrà proiettare sul palcoscenico reale, in quanto l’immaginazione è l’unica via di comprensione della storia, come sancito dal Coro nel I Atto, scena I.
Enrico V, sovrano della stirpe di Platangeneti, combatte in Francia, our fertile France (Atto V, scena II), our gayness and our gilt are all besmirched\with rainy marching in tha painful field[3] (Atto IV, scena III, 110-111),: il suo è un esercito di straccioni; la missione è quella di riconquistare la corona sui cui vanta diritti ereditari, ma è inficiata fin dagli albori dal tradimento dei nobili e più cari amici: O what shall I say to thee, Lord Scroop, thou cruel,\ingrateful, savage, and inhuman creature?\Thou that didst bear the key of all my counsels\That knew’st the very bottom of my soul[4]… (Atto II, scena II, 93-97) Ed è sotto la pioggia, tra i pantani del passo di Calais, che il sovrano Enrico rivolge ai suoi sparuti ed esausti soldati, in netta inferiorità numerica, uno dei più bei discorsi della storia del teatro (Atto IV, scena III), oltre che, accanto al monologo di Marco Antonio nel Giulio Cesare, uno dei meglio riusciti di Shakespeare. Laurence Olivier, forse massimo erede della tradizione teatrale inglese, e, in tempi più recenti, Kenneth Branagh hanno offerto magnifiche trasposizioni cinematografiche dell’Enrico V che toccano il loro punto più elevato di pathos epico proprio in occasione del monologo del re e della sua risposta all’araldo francese Montjoy, giunto al campo inglese ad offrire trattative per il riscatto del re. Il monologo di re Enrico esplicita la comunione di corpi e di anime tra il sovrano e l’esercito, in vista di un destino comune, nella vittoria o nella sconfitta, ma senz’altro nell’onore. Noi pochi, noi felici pochi, noi manipolo di fratelli… Nessuna battuta pronunciata incarna forse maggiormente tale comunione, resa esplicita e reale dal sangue e dal fango sulle vesti del re dopo la battaglia. Il re stesso dichiara all’araldo francese che perirà coi suoi soldati (…non tornar più a parlarmi di riscatto, cortese araldo:\non ne avranno mai altro, giuro, che queste mie membra,\che, se le troveranno come intendo lasciargliele,\renderanno ben poco, dillo al connestabile[5], 122-125); altrettanto piena di pathos è la risposta di Montjoy: Lo farò, re Arrigo. E quindi ti saluto:\né questo né altri araldi sentirai più[6] (126-127). Si tratta dell’epica degli happy fews, dei pochi, eletti testimoni destinati a vedere l’alba di quel giorno di gloria. Soltanto Dio potrà assisterli nella mischia, ed è a Dio che essi si rivolgono.
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V’è chi afferma che per possedere una cultura completa basterebbero la Bibbia – Antico e Nuovo Testamento-, Omero, Dante, Shakespeare. Si infatti tratta delle fondamenta della cultura europea declinata secondo le sue principali espressioni: giudaico-cristiana, classica, medioevale e cattolica, e, infine, l’anima del Nord Europa. Quest’ultima si impose prepotentemente tra XVI e XVIII secolo, i due secoli che videro l’asse dell’imperium europeo traslare dalla Spagna e dall’Italia sempre più verso settentrione: Gran Bretagna e Paesi Bassi si imposero signori incontrastati sui mari, la Francia e gli Asburgo d’Austria si spartirono l’Occidente, mentre, in ordine cronologico, Danimarca, Svezia e Prussia dominarono la terraferma a nord dell’Elba; gli stati dell’Impero Germanico, divisi dalla Riforma e insanguinati dalla guerra dei trent’anni, vennero ridotti alla mera autoreferenzialità dovuta all’impotenza. Il XVI secolo fu un secolo di grandi sconvolgimenti: nato con la scoperta del Nuovo Mondo, tappa fondante della potenza spagnola, morì con Elisabetta d’Inghilterra; vide le tesi di Wittenberg, Lutero a Worms dinnanzi all’imperatore, l’affermarsi della cattolica Spagna in opposizione alla Riforma, Lepanto e Trento. Il secolo successivo si aprì con gli Stuart a Londra, il declino della Spagna e la prima guerra civile europea: un secolo tetro, dominato dalla spada, dalla morte per fame o per peste. Non a caso fu anche il secolo della grande melanconia, di affretta il corso al secolo fugace,\perché s’apra, ognor picchia alla tomba[7], del dramma.
William Shakespeare, vibrante espressione dell’anima inglese e vero genio del teatro barocco, visse tra questi due secoli, cesura tra le più profonde nella storia europea e mondiale. Egli fu figlio ed erede di tale frattura: il suo teatro ne è forse l’espressione più alta[8] in quanto coniuga un variegato compendio di verità umane divenute universali con, dall’altro canto, la forte presenza di una storicità tutta mutuata dall’epoca in cui il drammaturgo visse. Carl Schmitt scrisse che è nel XVI-XVII secolo che il mondo intero divenne palcoscenico: theatrum mundi, theatrum naturae, theatrum europaeum, theatrum belli, theatrum fori. L’uomo attivo di quest’epoca si sentiva posto su di un podio davanti a degli spettatori, e considerava se stesso e la sua attività nella spettacolarità del suo agire[9]. Dall’altra parte, e questo appare evidente proprio in drammi non storici quali Giulio Cesare, La Tempesta, MacBeth e, soprattutto, Amleto, il pubblico delle opere era pienamente cosciente dell’irrompere della tragedia storica nel dramma, condizione d’eccezionalità questa che rendeva lo stesso dramma ancor più vivido. Carl Schmitt, in uno dei saggi dedicati all’ambito letterario[10] e, purtroppo, uno dei più trascurati, Amleto o Ecuba. L’irrompere del tempo nel gioco del dramma, offre un’acuta, oltre che inedita, interpretazione del dramma amletico in chiave storica: il tabù della colpevolezza materna e l’indecisione melanconica proprie del personaggio di Amleto stesso sono alla base dell’identificazione, naturalmente non pedissequa, della figura del principe con re Giacomo I e della fusione del Trauerspiel con la Tragödie nel significato storico, appena intuito da Shakespeare, del dramma degli Stuart: questa dinastia fu annientata dal destino delle discordie confessionali europee – alle radici della grande frattura barocca -. Nella sua storia è maturato il seme del mito tragico di Amleto[11].
Cosa si può invece affermare in merito ad un dramma eminentemente storico quale l’Enrico V? Di per sé esso non si discosta eccezionalmente, per impostazione, dalle opere shakesperiane. Non manca un aspetto di play, di gioco, e quindi di umorismo, che solo Shakespeare ha saputo fondere, in altre opere, con la tragedia. Personaggi come l’alfiere Pistola, il caporale Nym, lo stesso Fluellen, danno vita a scene godibili di immancabile ironia. Tuttavia pure in esse si insinua il dramma: Nym muore e così la moglie di Pistola, l’ostessa, mentre lo stesso Pistola, espressione degli umili, non potrà partecipare alla gloria dei principi vincitori. Intorno a lui, unico sopravvissuto della sua compagnia, regnano la disfatta e la morte: Vecchio divento e dalle mie stanche membra\l’onore vien cacciato a bastonate. Bene, farò il ruffiano\(…)\Mi recherò furtivo in Inghilterra, e lì mi darò al furto;\e metterò cerotti sui segni delle botte,\e giurerò che l’ebbi nelle guerre di Gallia[12] (Atto V, scena I, 87-88\90-3). Un bel contrasto con Chi assisterà a questo giorno e arriverà alla vecchiaia,\ogni anno, alla vigilia, offrirà un banchetto ai vicini\a dirà: “Domani è San Crispiano”.\Poi si rimboccherà la manica e mostrerà le cicatrici\e dirà: “Queste ferite le ho ricevute il giorno di San Crispino”.\I vecchi dimenticano; tuttavia egli tutto dimenticherà\ma ricorderà, anche ricamandoci sopra,\le gesta compiute quel giorno[13] (Atto IV, scena III, 44-51) E poi a Calais, e poi in Inghilterra;\ove mai saranno sbarcati dalla Francia uomini più felici[14] (Atto IV, scena VIII, 128-129), parole pronunciate da re Enrico rispettivamente prima e dopo la battaglia. La stessa figura, del tutto marginale, del vecchio Sir John Falstaff, racchiude in sé l’humour e il tragico allo stesso tempo. Egli, mentore del giovane e dissipato Enrico in una gioventù condotta tra scazzottate e case di piacere, verrà poi abbandonato sul letto di morte dal giovane divenuto re: Nym: il re s’è sfogato del suo malumore sul cavaliere,\questa è la pura verità. Pistola: Nym bene dicesti;\il suo cuore è affranto e catafratto[15] (Atto II, scena I, 122-125). Non a caso Falstaff viene spesso identificato come figura storica in Sir John Oldcastle, l’anziano amico di Enrico che si mise a capo dei seguaci eretici di Wyclif, i lollards, e venne giustiziato.
Il dramma si presenta come encomiastico e celebrativo dell’istituzione monarchica e della forza inglese, nel solco delle politiche elisabettiane. Tuttavia si pongono non pochi problemi di natura politica. Innanzitutto, come fa notare Giorgio Melchiori, esso è in contrasto con l’impostazione generale data dagli stessi storici Tudor (e perciò da Shakespeare) alla loro visione del periodo della storia d’Inghilterra che va dalla deposizione di Riccardo II all’ascesa al trono di Enrico VIII, visione totalmente negativa, fino a quando, appunto, l’avvento dei Tudor non aveva posto fine ai danni provocati all’Inghilterra dall’usurpazione commessa proprio dal padre di Enrico V[16]. Enrico è presentato infatti come il prototipo del re buono e saggio, riscattatosi da una gioventù di bagordi (non a caso il Delfino di Francia invia, in segno di schermo, delle palle da tennis al re inglese), e che, per amor di giustizia, non esita a mettere a morte uno dei suoi compagni più fidati sorpreso a rubare in una chiesa francese. In effetti, ad eccezione dello storico d’età Tudor Samuel Daniel, il quale pure si lamentava di doversi limitare ai soli aspetti negativi del regno di Enrico, le fonti storiche cui attinse Shakespeare – le cronache di Holinshed, il poema anonimo The Battle of Agincourt, The Famous Victories of Henry the Fifth – non lasciano spazio ad equivoci. Si tratta di un re eroico e vincitore, un re di guerra come lo fu Riccardo Cuordileone, tuttavia è guerra in terra di Francia quella di cui tratta Shakespeare: è qui che si incappa in un’ulteriore problematica di natura storico-politica. È vero che l’Enrico V celebra l’espansionismo inglese, ma, dall’altra parte, Elisabetta aveva allora rinunciato ad ogni velleità territoriale nei confronti della Francia: lo scontro sui mari vedeva allora contrapposte Inghilterra e Spagna, così rievocare il secolare conflitto francese poteva essere un atto delicato, rischiando di riaprire un capitolo di storia ormai concluso, peraltro con la definitiva sconfitta inglese. Shakespeare riequilibra la situazione con il toccante discorso del duca di Borgogna all’atto V, scena II, diplomatico pacificatore delle parti. Infine v’è un’ultima particolarità: al termine della battaglia, atto IV, scena VIII, re Enrico pronuncia parole che appaiono ben più in linea, anche dal punto di vista liturgico, con la tradizione cattolica più che con quella anglicana, la quale, soprattutto sotto il regno di Elisabetta, si era dotata di una forte eredità di ascendenza calvinista: Do well all holy rites:\Let there be sung Non nobis and Te Deum,\the death with chairity interred in clay[17] (Atto IV, scena VIII, 125-127). L’unica concessione che l’anglicano Shakespeare concede all’anglicanesimo nell’Enrico V è infatti la ridicola dissertazione proposta dall’arcivescovo di Canterbury nell’atto I, scena II, volta più a sviare l’incameramento dei beni della Chiesa cattolica da parte della corona che a dimostrare la giustezza della pretese inglesi sul trono di Francia.
Come si spiega dunque la problematicità che Shakespeare ha voluto porre all’interno di quest’opera? Per comprenderlo occorre fare opportuno riferimento al contesto storico in cui nacque l’opera, ultimata tra l’aprile e l’agosto del 1599. Forse si ricorderà che Shakespeare era politicamente legato alla cerchia di cortigiani che faceva capo a Henry Wriothesley, lord Southampton e, soprattutto, a Robert Devereux, conte di Essex. Quest’ultimo, del quale Giles Lytton Strachey ha tracciato un vivido ritratto in Elisabeth and Essex, fu, accanto a William Cecil, lord Burghley e Sir Walter Raleigh, uno dei personaggi centrali del secondo ventennio di regno elisabettiano, divenendo, forse, amante della regina stessa. Tuttavia, mentre Burghley e Raleigh incarnarono la spinta modernizzatrice – se così si può dire – dell’Inghilterra, volta alla conquista del Nuovo Mondo e di nuovi mercati oltreoceano – del resto è la pirateria che ha reso grande l’Inghilterra -, Southampton ed Essex ne rappresentarono il retaggio feudale, per non dire medioevale. La tragicità delle loro figure può essere vista come espressione di quella frattura tra il mondo feudale avviato verso l’estinzione e quello moderno proiettato verso il trionfo, come l’ultimo serio tentativo della nobiltà inglese di far valere la propria autorità in un’ottica tradizionalista nei confronti della Corona. Proprio nel marzo 1599 Essex partiva per l’Irlanda alla testa di una spedizione volta a sconfiggere i ribelli del conte di Tyrone, sostenuti dall’oro spagnolo e dalla Chiesa, una spedizione che avrebbe dovuto riportarlo nelle grazie della Regina e che, invece, fu preludio della sua definitiva caduta e morte alla Torre di Londra. All’inizio dell’atto V, scena I, il Coro declama: se adesso il generale della nostra graziosa imperatrice -\come potrà accadere un giorno felice – tornasse dall’Irlanda,\recando la ribellione infilzata sulla sua spada,\quanti lascerebbero la pacifica città,\per dargli il benvenuto![18] (30-34). Ciò, a parere di un critico di fama quale Melchiori, rappresenta un chiaro riferimento al conte di Essex, qui paragonato al re Enrico. Apparentemente potrà apparire come una battuta banale, di poco conto: tuttavia è in essa che è racchiuso l’arcanuum dell’opera intera. Non si tratta qui di assimilare meramente Essex ad Enrico, come per Schmitt non si trattò di assimilare Giacomo ad Amleto; dall’altro canto è innegabile la vicinanza tra i due che Shakespeare volle stabilire. Da una parte Re Enrico, un re della vecchia Inghilterra feudale e pre-moderna, barbarica, trova suo corrispettivo in Essex per le ragioni già enunciate supra. Dall’altra con Essex si spegne l’ultima fiammella di feudalità in Inghilterra. Ed è a quel mondo pre-Tudor e pre-Riforma, già decapitato dalla guerra delle due rose dalla quale i Tudor stessi uscirono vincitori, che Shakespeare dedica l’Enrico V: si spiegano così l’accento epico, la terra di Francia, il Non nobis domine che sigilla l’opera. Si potrebbe concludere che quest’opera rappresenta un’elegia della piccola Inghilterra del tempo andato, con la paradossale beffa che Azincourt segnò per l’Europa continentale il tramonto della cavalleria feudale, battuta dal valore degli arcieri e dei fanti inglesi.
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[1] We few, we happy few, we band of brothers:\For he today that sheds his blood with me\Shall be my brother; be he ne’er so vile,\This day shall gentle his condition;\And gentleman in England now abed\Shall think themselves accursed they were not here,\And hod their manhoods cheap, whiles any speaks\That fought with us upon Saint Crispin’s day; testo originale dall’edizione 1623, traduzione dall’inglese di Vittorio Gabrieli, da William Shakespeare, Teatro completo, Volume VII, I drammi storici, Tomo I, a cura di Giorgio Melchiori, Mondadori Editore, Milano, 1984.
[2] Non si sono volute riportare quali “grandi battaglie inglesi” né Blenheim – vinta dal duca di Marlborough, forse il più grande stratega britannico, in collaborazione con Eugenio di Savoia nel corso della guerra di successione spagnola – né Waterloo in virtù della loro valenza più europea che prettamente britannica.
[3] I nostri abiti e i nostri ori sono imbrattati\dalle penose marce sotto la pioggia per le vostre campagne; ibidem.
[4] Oh\che cosa dovrò dire a te, lord Scroop? Tu, creatura\crudele, ingrata, barbara e snaturata!\Tu che portavi le chiavi di tutti i miei segreti,\che conoscevi a fondo l’anima mia…; ibidem.
[5] Come thou no more for ransom, gentle Herald\They shall have none, I swear, but these my joins\Which if they have as I will leave ‘em them\Shall yield them little, tell the Constable; ibidem.
[6] I shall, King Henry. And so fare thee well:\Thou never shalt hear herald any more; ibidem.
[7] Ciro di Pers, Poesie, a cura di Michele Rak, Einaudi Editore, Torino, 1978.
[8] Shakespeare supera per universalità gli altrettanto validi teatri barocchi spagnolo, con Lope de Vega e, soprattutto, Calderón de la Barca, e francese coi classici Corneille e Racine. Questo perché l’uno è troppo strettamente legato alla realtà tutta spagnola del siglo de oro e del suo tramonto, mentre l’altro all’affermazione della moderna forma di statualità politica con il regno di Luigi XIV. Shakespeare si pone, appunto nel mezzo, tra le ultime propaggini del medioevo e l’affermarsi del moderno. Ecco perché la grandezza del suo teatro, nato dal dramma di una scompensazione non ancora colmata, da ricercarsi nella specificità del caso storico inglese.
[9] Carl Schmitt, Hamlet oder Hekuba. Der Einbruch der Zeit in das Spiel, traduzione italiana: Amleto o Ecuba. L’irrompere del tempo nel gioco del dramma, a cura di Carlo Galli, Il Mulino Editore, Bologna, 2012.
[10] Tra gli altri testi che Schmitt dedicò alla letteratura vi sono il giovanile Aurora boreale. Tre studi sugli elementi, lo spirito e l’attualità dell’opera di Theodor Däubler, e le pagine che egli dedica allo stesso Däubler, a Konrad Weiß in Ex captivitate salus.
[11] C. Schmitt, ibidem. Ancora: …la poesia europea ha creato tre grandi figure simboliche: Don Chisciotte, Amleto e Faust. In ogni caso, uno di questi, Amleto, è già diventato un mito. (…) Tutti e tre sono stati fuorviati, vittime del loro spirito. E ora, prestiamo un attimo d’attenzione alla loro origine e alla loro nascita: Don Chisciotte è uno spagnolo, un buon cattolico; Faust è tedesco e protestante; Amleto sta tra i due, nel mezzo della frattura che ha segnato il destino d’Europa.
[12] Old I do wax, and from my weary limbs\Honour is cudgellèd\(…)\To England will I steal, and there I’ll – steal;\And patches will I get unto these cudgelled scars,\And swear I got them in the Gallia wars; Shakespeare, ibidem.
[13] He that shall see this day, and live old age,\Will yearly on the vigil feast his neighbours,\And say: “Tomorrow is Saint Crispian”.\Then will strip his sleeve, and show his scars,\And say, “These wounds I had on Crispin’s day”.\Old men forget; yet all shall be forgot,\But he’ll remember, with advantages,\What feats he did that day; ibidem.
[14] And then to Calais, and to England then,\Where ne’er from France arrived mory happy men; ibidem.
[15] Nym: The King hath run bad humours on the knight,\that’s the even of it.
Pistol: Nym, thou hast spoke the right;\His heart is fracted and corroborate; ibidem.
[16] Giorgio Melchiori in Shakespeare, ibidem.
[17] Celebriamo dunque tutti i sacri riti:\sia cantato Non nobis e Te deum; ibidem.
[18] Were now the General of our gracious Empress – \ as in good time he may – from Ireland coming,\Bringing rebellion broachèd on his sword,\How many would the peaceful city quit\to welcome him!; ibidem.