Ma chi è che dice che barriere e confini causano più danni che benefici? Lo dicono gli alfieri (e i loro innumerevoli e stupidi epigoni) del “Politicamente corretto”, di fatto al servizio di elites economiche e finanziarie che hanno scopi ben più concreti e prosaici della pace universale. Un illuminante fondo dello storico americano Victor Davis Hanson, pubblicato il mese scorso sul quotidiano “Los Angeles Times”, smonta molti luoghi comuni, smaschera le vere dinamiche dell’attuale dibattito sulla necessità di abbattere i confini (e con loro gli stati nazionali, le sovranità nazionali, le identità culturali ed economiche) e ricorda quale è stata – ed è – la funzione storica dei confini. Che rispondono ad una innata, legittima e positiva istanza umana
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Mai come oggi i confini sono all’attenzione dei media. Innescata dai rifugiati mussulmani che sciamano dal Medio Oriente all’Unione Europea e con il terrorismo montante, una rivolta popolare sta prendendo forma contro i cosiddetti accordi di Schengen, che danno diritto di libero spostamento all’interno dell’Europa. Le masse europee non sono razziste, ma ora sembrano disposte ad accettare immigrati mediorientali solo nel caso in cui essi giungano legalmente e promettano di diventare europei nei valori e nella concezione di vita, una condizione che l’UE ha sostanzialmente scartato decenni fa in quanto “intollerante”. Gli europei stanno imparando di nuovo che i loro confini esterni del continente segnano la separazione da approcci culturali e sociali profondamente differenti rispetto a quelli che prevalgono in nord Africa o Medioriente.
Un crisi analoga sta avvenendo negli Stati Uniti, dove il presidente Obama ha dovuto rinunciare al suo tentativo di agire per decreto nei confronti delle leggi statali sull’espulsione forzata degli immigrati irregolari. La controffensiva populista contro l’immigrazione clandestina dal Messico e dall’America centrale e meridionale ha dato l’abbrivio alla candidatura alle presidenziali di Donanld Trump, basata sulla promessa del candidato di edificare un impenetrabile muro di confine, più o meno come l’ondata di richiedenti asilo in Germania ha dato corda all’opposizione alla cancelliera Angela Merkel.
A guidare l’indignazione montante in Europa e Nord America è la spinta senza soste delle elites per un mondo senza confini. Fra le elites, l’“abbattimento delle frontiere” si è guadagnato un posto nel gotha del politicamente corretto, e come altre idee analoghe, ha forgiato il linguaggio che usiamo. Il termine descrittivo “immigrato clandestino” ha portato al nebuloso “immigrato irregolare”, poi a “immigrato senza documenti”, quindi semplicemente a “immigrato” e infine al totalmente neutro “migrante”, un nome che oscura qualunque aspetto del problema che riguardi ingressi o uscite.
L’attuale agenda politica delle “frontiere aperte” ha le sue radici non solo nei fattori politici ed economici (il bisogno di lavoratori a basso costo che dovrebbero fare i lavori che – si pensa – europei ed americani non vogliono più fare, e il desiderio di fuggire da Stati collassati), ma anche in molti decenni di fermentazione intellettuale, nei quali l’intellighenzia occidentale ha creato una vera e propria moda del dibattito sulle frontiere. Quello che possiamo definire un “post-confinismo” sostiene che i confini sono costrutti meramente artificiali, strumenti di discriminazione disegnati dalle classi dominanti, in particolare per disprezzare e opprimere gli “altri” – genericamente i più poveri e i meno occidentali – che così sono finiti arbitrariamente dalla parte sbagliata della frontiera. “Dove vengono disegnati confini, c’è un potere che viene esercitato”, disse un accademico europeo. Questa visione implica che se non ci sono confini non c’è un potere e dunque se gli immigrati mediorientali si riversano in Germania non stanno a loro volta esercitando un notevole potere in virtù del loro mero fattore numerico e per l’abile manipolazione dei politici occidentali.
Va anche detto che il sogno di un mondo senza confini non è nuovo: Plutarco affermò nel suo saggio “sull’Esilio” [Περὶ φυγῆς – De exilio, NdT] che Socrate considerava se stesso non solo un ateniese, ma un “cittadino del mondo”. Nel tardo pensiero europeo l’idea comunista di una solidarietà universale fra lavoratori tratteggiò pesantemente un’idea di un mondo senza confini. “Lavoratori di tutto il mondo, unitevi!” esortavano Marx ed Engels. Secondo il loro pensiero le guerre scoppiavano solo a causa di inutili discussioni su obsoleti confini di Stato. Alcuni hanno ipotizzato che la soluzione al succedersi senza fine delle guerre poteva trovarsi nell’eliminazione dei confini in favore di un governo transnazionale. Il romanzo di fantascienza prebellico di H. G. Wells “La vita futura” (1933) descriveva un mondo in cui la scomparsa dei confini era la conseguenza di un governo di saggi, illuminato e transnazionale. Questa narrativa alimentò la smania di un mondo senza confini, sebbene i tentativi di rendere le frontiere inutili, come quelli che cercò di fare la Società delle Nazioni all’epoca di Wells, avessero fino ad allora sempre fallito. Imperterrita, la sinistra continuò a incapricciarsi che il mondo senza frontiere fosse un’idea moralmente superiore, un trionfo sulle differenze imposte artificialmente.
Tuttavia la verità è che i confini formali non creano le differenze, ma le riflettono. I continui tentativi delle elite di cancellare i confini sono inutili e distruttivi. I confini, e le lotte per difenderli o cambiarli, sono vecchi come la civiltà agricola. Nell’antica Grecia la maggior parte delle guerre scoppiava su dispute per i territori incolti di confine. I territori di confine, chiamati eschatià, avevano uno scarso valore agricolo, ma possedevano l’enorme valore simbolico per una città-stato che volesse definire dove la sua cultura iniziava e finiva. Nel corso della storia le scintille che avviano le guerre sono tradizionalmente scoccate sulle terre di confine: la methoria (????) fra Argo e Sparta, il Reno e il Danubio quali frontiere di Roma, l’Alsazia-Lorena come polveriera fra Francia e Germania. Queste dispute non sempre sono sorte, almeno all’inizio, come sforzi di invadere e conquistare un vicino. Furono invece mutue espressioni di società distinte che davano valore a confini ben definiti, non solo come questione di necessità economica o di sicurezza militare, ma anche come affermazione di sicurezza che una società poteva farsi i fatti propri senza l’interferenza e le prepotenze dei suoi vicini.
Pochi si salvano da una miseranda ipocrisia mentre predicano il vangelo universale del mondo senza confini. Nel 2011 l’attivista per i “confini aperti” Antonio Villaraigosa divenne il primo sindaco nella storia di Los Angeles a far costruire un muro attorno alla residenza ufficiale del primo cittadino. I suoi vicini, che non avevano alcun muro di recinzione [negli Stati Uniti spesso e volentieri cortili e prati padronali non hanno recinzioni o steccati a separarli dalla strada pubblica, poiché esiste un tradizionale rispetto della proprietà privata NdT], obbiettarono che innanzitutto non c’era bisogno di una tale barricata, e secondo poi che violava una ordinanza civica che proibiva muri di recinzione residenziali più alti di quattro piedi [120 cm NdT]. Ma Villaraigosa apparentemente aveva tutta l’intenzione di accentuare la differenza fra la sua casa e il resto della strada, oppure era preoccupato da questioni di sicurezza, o ancora interpretava il nuovo muro come rappresentativo del suo alto incarico.
Mentre le elite possono isolare se stesse innalzando muri, le conseguenze delle loro politiche ricadono pesantemente sulle classi subalterne che mancano di soldi e influenza per tirare a campare all’ombra dei muri delle elite. I contrasti fra i due gruppi (Peggy Noonan [scrittrice ed editorialista newyorkese di area cattolica e conservatrice NdT] li ha classificati come i “protetti” e i “non protetti”) venne enfatizzata durante la campagna presidenziale di Jeb Bush: quando l’ex governatore della Florida definì l’immigrazione illegale dal Messico “un atto d’amore” affossò la propria candidatura: agli elettori Bush apparve come quello abbastanza ricco per scegliersi quali conseguenze delle sue idee potessero ricadere su di lui e sulla sua famiglia, una cosa impossibile per la maggioranza di coloro che vivono negli Stati Uniti sudoccidentali.
Molto più diffusamente, coloro che deridono i confini sono incapaci di spiegare perché decine di milioni di persone cercano di attraversarli abbandonando la loro lingua e il suolo natio e correndo gravi rischi personali. La risposta è ovvia: la migrazione – come fu negli anni Sessanta fra la Cina continentale e Hong Kong, com’è ora fra Nord e Sud Corea – è normalmente una strada a senso unico dalle realtà non-occidentali a quelle occidentali od occidentalizzate. La gente marcia, scala, nuota e vola oltre i confini, certa che questi confini segnano un differente approccio nell’esperienza umana, con una delle due parti percepita come più appetibile e di successo rispetto all’altra. Le leggi occidentali che promuovono una sempre più grande opportunità di governo del consenso, tolleranza religiosa, magistrature indipendenti, capitalismo del libero mercato e la protezione della proprietà privata creano un combinato disposto che offre all’individuo livelli di prosperità e di sicurezza personale raramente goduti nelle rispettive patrie di origine degli emigrati. Come risultato, i migranti si ingegnano per andare a Occidente, anche e soprattutto perché la civiltà occidentale – caso unico – si è definita per cultura e non per razza e solo essa è disposta ad accettare e integrare coloro che vogliono condividere il suo stile di vita anche se appartenenti a razze differenti.
Nei paesi occidentali molti islamici non assimilati ritengono di poter ignorare la giurisprudenza locale ma sempre di farvi affidamento in casi eccezionali. I nuovi arrivati dal Pachistan a Londra possono desiderare di seguire la sharia come l’hanno conosciuta nel Punjab. Ma restano implicite due cose non nominabili: primo, l’immigrato quasi certamente non ha alcuna voglia di tornare ad affrontare la sharia in Pachistan; secondo, se l’immigrato riuscisse nel suo intento di istituzionalizzare la sua cultura nativa all’interno di quella della sua terra adottiva, egli sarebbe ancora libero di fuggire da questo risultato, e ancora una volta emigrare da qualche altra parte per la medesima ragione che lo spinse ad abbandonare casa sua ab ovo. Similmente, quando dei giovani clandestini sudamericani cercano di disturbare la campagna elettorale di Trump, spesso e volentieri innalzano bandiere messicane o cartelli con su scritto slogan come “Make America Mexico Again”. Ma si noti il paradosso sentimentale: preoccupati per una possibile deportazione, i clandestini sbandierano assurdamente il vessillo dei paesi da cui sono scappati e dove quasi certamente non intendono ritornare, snobbando la bandiera della nazione in cui pervicacemente intendono restare.
I confini hanno la funzione fra nazioni che le recinzioni hanno fra vicini di casa: servono a demarcare che qualcosa da una parte è differente da ciò che si trova dall’altra parte. I confini amplificano l’innato desiderio umano di possedere e proteggere una proprietà e uno spazio fisico, cosa che è impossibile da fare senza un segno visibile, e che solo grazie ad esso può essere così compreso come distinto e separato. Confini chiaramente delineati e la loro difesa, sia con muri e recinzioni che con il pattugliamento, non spariranno perché esistono nel cuore della condizione umana, ciò che i giuristi da Roma all’Illuminismo scozzese hanno definito “meum et tuum”, tuo e mio. Fra amici, confini non protetti rinforzano l’amicizia; fra nemici, confini fortificati mantengono la pace. (dal “Los Angeles Times” del 31 luglio 2016, traduzione di Emanuele Mastrangelo)
* da Storia in Rete diretta da Fabio Andriola