Per ricordare i 150 anni delle relazioni commerciali tra Italia e Giappone, sono esposti al Museo Nazionale Preistorico Etnografico ‘Luigi Pigorini’ di Roma alcuni degli oggetti raccolti da Enrico Hillyer Giglioli (1845 – 1909) nel 1866 in Giappone e legati al mondo dei samurai. Questa mostra, piccola, ma assai intrigante, riporta alla luce il “Caso Pigorini”. Ovvero, il fatto quanto mai biasimevole che la splendida collezione asiatica di questo Museo non abbia sinora mai visto la luce in una esposizione permanente. Da anni, la responsabile del dipartimento dedicato a questo continente, Loretta Paderni, tenta con tenacia, e una buona dose di devozione, di far “riemergere” dagli sterminati depositi di questa Istituzione unica al mondo, almeno parte degli oggetti orientali donati al Museo da viaggiatori e studiosi. Tra questi, spicca per l’appunto Giglioli, il quale durante la sua vita mise assieme una raccolta straordinaria, composta da 17.000 opere e 9.000 fotografie in tema etnoantropologico. Mentre ci accompagnava nella visita, la Paderni ci ha ricordato un qualcosa che quasi nessuno sa: il primo museo nazionale post-unitario è stato proprio il Pigorini (aperto ufficialmente nel marzo 1876) e non, come molti credono, il Museo Geologico Nazionale di Roma (inaugurato nel 1885); “ucciso” da questo Stato incapace nel gestire il Patrimonio che la Storia ha regalato all’Italia, essendo stato messo nelle scatole e rinchiuso in qualche magazzino della Capitale.
La fama di Giglioli
Tornando a Giglioli, la sua fama si deve ai viaggi esplorativi della celebre pirocorvetta Magenta. A esser precisi, la vera natura della missione in Giappone della nave italiana era prettamente commerciale, con la precisa intenzione di acquistare i semi di bachi, diffusi nel Sol Levante, e che in Italia erano stati minacciati da una epidemia (la famigerata pebrina). Il viaggio della Magenta (1865 – 1868) si rivelò per il giovane Giglioli una irripetibile esperienza scientifica, nonché umana, ricordiamoci questo ultimo termine, visto che ritornerà nella nostra analisi.
Accademico di razza assai precoce (diventa professore a soli venti anni), Giglioli incontra l’amicizia e la stima di uno studioso del calibro di Paolo Mantegazza (1831 – 1910), che firmerà la introduzione al suo libro, pubblicato nel 1875, col resoconto delle sue esperienze di viaggio. Con Mantegazza, egli condivide la piena comprensione della importanza della fotografia per uso scientifico, quale prezioso strumento classificatorio. Tuttavia, Giglioli, all’utilizzo strettamente tecnico del mezzo fotografico, ne valorizza altresì quello estetico, raccogliendo foto “artistiche” o “di contesto”. A tal proposito, a Yokohama egli acquista delle foto di Felice Beato: un italiano che, come nessun altro straniero, ha saputo catturare attimi “totemici” del Giappone di fine ‘800.
Una nota museologica in forma di plauso va alla suddetta Paderni, la quale ha scelto un approccio antimoderno nell’apparato esplicativo della esposizione, non facendo accompagnare le opere da noiose didascalie, preferendo “dare la parola” allo stesso Giglioli, che, grazie a una scrittura precisa quanto coinvolgente, spiega bene non solo la natura dei pezzi in mostra, ma specialmente la loro funzione nella società dell’Arcipelago e – fondamentale dato collezionistico – come sono entrati in suo possesso. Del resto, chi conosce le ricerche di questo studioso sa quanto siano approfondite le sue descrizioni di inventario, ma anche qui, non certo stilate in modo verboso, giacché dietro a ogni oggetto da lui raccolto si cela una storia.
Giglioli fu capace di intravedere quei cambiamenti causati dalla modernità che stavano gradualmente alterando la cultura tradizionale nipponica e di percepirne il portato negativo. Le sue riflessioni su questo complesso Paese andrebbero, perciò, recuperate nell’ambito degli studi di settore. Purtroppo, come è oramai prassi, all’utile “vecchio”, si preferisce sistematicamente un sovente sterile “nuovo”. Quanto sarebbe affascinante per i giovani orientalisti leggere le impressioni di Giglioli su Yokohama ed Edo (l’antico nome della capitale Tōkyō), che lui chiama Yedo, così che possano avere la dimostrazione di un modo diverso di occuparsi dell’Asia. Fosse solo per questo, la mostra rappresenta una occasione preziosa.
Ci sono comunque alcuni pezzi di grande interesse, come una spada corta (Wakizashi, prima metà XVII secolo), appartenente al “mitico” Museo Kircheriano di Roma. Dal catalogo, compilato dal De Sepi nel 1678, di questo “museo universale” voluto da Padre Athanasius Kircher (1602 – 1680), si sostiene che essa venne utilizzata contro i gesuiti all’epoca delle persecuzioni anticristiane avvenute in Giappone a opera dello Shogunato Tokugawa. Quindi, una arma che è stata veramente usata e non, come avviene per molte delle katana esposte nei musei occidentali, un semplice souvenir, fabbricato per la vendita a facoltosi appassionati stranieri. Quasi unici poi al di fuori del Giappone sono un guanto da arciere, una faretra “nuda”, dunque non col solito contenitore di legno laccato, e una cerbottana, sempre in legno. Infine, racchiuso in una teca trasparente, troviamo un curiosissimo “mostro di cartapesta”. Un freak creato ad arte dai nipponici – d’altronde, costoro tendono a fare tutto in modo perfetto – a dimostrazione di come il forestiero fosse talvolta visto nel Sol Levante come una persona dall’ingegno grossolano, facile preda di raggiri. Se questo agli specialisti può sembrare un commento poco “scientifico”, allora vuol dire che si considerano gli studi umanistici uguali a quelli di economia, e non è così! La passione di Giglioli sta a dimostrare l’esatto contrario: si studia ciò che si ama, senza diventare un “fan”, certo. Altrimenti, come avviene oggigiorno, si creano legioni di nozionisti che pensano prima alla carriera che allo studio; oppure, per dirla magari in modo più corretto: ritengono la ricerca esclusivamente funzionale al proprio appagamento personale.
Per tale motivo, scegliamo di congedarci con le parole di Giglioli, suggerendo agli appassionati di Giappone di confrontarsi con questo modo “alternativo” di fare ricerca, il quale, sia chiaro, non è affatto meno serio, bensì dotato di acume intellettuale, quello che spinse Giglioli a comprendere che quello “strano” Paese aveva davvero qualcosa di speciale:
Durante il viaggio della Magenta e dopo, nessun paese di quello dai nostri diversi, ebbe più larga parte delle mie simpatie del Giappone, nessun popolo più del giapponese. Ebbi la fortuna di essere fra quelli che iniziarono i rapporti amichevoli tra l’Italia e l’impero del Sole Levante, e fu con vera gioia che vidi le simpatie che ci mostrarono spontaneamente, negli ultimi giorni del nostro soggiorno, i rappresentanti del Governo che allora vigeva quel paese […] Lascio il Giappone a malincuore; sovente esso avrà il mio pensiero, sempre i miei voti più cordiali per il suo bene e per la sua felicità.
“Gioia”, “simpatia”, tutti termini considerati inappropriati dalla attuale Accademia. Francamente, non sappiamo quale sia il modo “giusto” di essere degli studiosi, se mai ce sia uno. Ciononostante, gli anni ci diranno se i dotti di oggi saranno stati capaci di lasciare un segno, una passione tramandabile alle future generazioni per un determinato ramo del Sapere, come seppe fare Enrico Hillyer Giglioli.