![C'è un cadavere nello champagne di Marcello De Angelis (Idrovolante)](https://www.barbadillo.it/wp-content/uploads/2016/10/libro_97-310x233.jpg)
La recensione di Mario Vattani del romanzo di Marcello De Angelis “C’è un cadavere nel mio champagne”
Spiritoso. Così direi, se mi si chiedesse di scegliere una sola parola per raccontare il romanzo di Marcello De Angelis, “C’è un cadavere nel mio champagne” (Idrovolante Edizioni, 2016).
Molto spiritoso, ma così diventerebbero due, perché probabilmente descriverei così anche l’autore, ironica voce narrante che spesso ci canzona mentre ci accompagna in un curioso cammino denso di sorprese. E attenzione, per spiritoso non si intende solamente piacevole, brillante, vivace – tutte cose che questo romanzo è senz’altro. Spiritoso significa qualcosa di più, soprattutto quando ci si diverte a passare da un lato all’altro delle Alpi, o della Manica.
La radice di quella definizione è la stessa che riconosciamo in questo romanzo, esattamente l’esprit in francese, visto che è in Bretagna che si svolge la strana avventura bretone. Esprit, in quella lingua musicale che l’autore, pur scrivendo nella nostra, mostra di conoscere talmente bene da giocarci: infatti quando si suona il proprio strumento, in francese lo si gioca, e De Angelis, peraltro musicista, gioca con il suo racconto, gioca con i suoi personaggi, gioca con noi in un’ambientazione dalla trama molto fitta e ricamata, che ci regala il lusso (raro) di essere reale, vera, conosciuta e quindi conoscibile.
No, non bisogna raccontare troppo della curiosa indagine di cui è protagonista Louis Le Manac’h, antiquario, con la sua insolita famiglia (compreso il cane folle Vidocq), per non rovinare a nessuno il gusto di avventurarsi nel piccolo borgo bretone di Plurien.
Plurien, che pur significando “nulla più” per noi esiste, perché lo vediamo, anzi lo viviamo, lo annusiamo, addirittura lo gustiamo attraverso una serie di appassionate ed immaginifiche descrizioni di piatti tipici, della loro preparazione, golosi elenchi che sembrano quasi ispirarsi alle infinite fughe enogastronomiche di Rabelais. Plurien diventa un luogo reale, ricostruito da De Angelis con tale cura e ricchezza di dettagli, che se leggendo riuscissimo a girare l’angolo a nostro piacimento, se potessimo scovare una pagina nascosta e aprire un’altra porta, svoltare qualche passo più in là dal racconto, sicuramente potremmo proseguire a nostro piacimento, senza mai accorgerci che ci troviamo in realtà su una scena, disegnata con maestria.
L’esprit di questo romanzo – come quello dell’autore – non è semplicemente lo spirito arguto o faceto che si associa al divertimento. E’ quello di chi sa giocare non solo con la parola, ma anche con il passato. E’ qualcosa, qualcuno, che viene evocato nel ritmo sottile dei dialoghi, nell’ironia che colora ogni incontro, ogni colpo di scena. E’ uno spirito leggero, ma che sa anche non esserlo. Per questo nell’esprit vi è anche il brivido che prova il narratore quando regala alle ombre, ai non-morti, un’opportunità di prendere vita e di mescolarsi alla vita quotidiana, l’impercettibile cambiamento di luminosità, di temperatura, che avviene quando a parlare sono i fantasmi, attraverso un movimento, un nome, un ricordo.
Una strana storia, quella che ci racconta De Angelis, in una lingua diversa. Una lingua che pur essendo italiana sembra più briosa, più allegra e vivace di quella a cui siamo troppo spesso abituati. Potrei dire che appare simile all’inglese, nel senso che mi ricorda un modo britannico di affrontare la narrazione, oppure francese, per la maniera in cui si scherza con le assonanze, per come si lasciano rimbalzare le frasi da una paragrafo all’altro.
Potrei dire queste cose, ma la fortuna ha voluto che qualche tempo fa mi trovassi tra le mani dei testi italiani di fine ottocento e della prima metà del secolo scorso. Non parlo di romanzi. Al contrario, erano articoli, libri di viaggio, saggi, anche i primi numeri della rivista “La Cucina Italiana”, per dire. In quella strana collezione, di cui la carta ingiallita non rispecchiava in nulla la vitalità che vi si respirava, i toni sprizzavano energia e ottimismo, il vocabolario era visionario, lo stile era spiritoso e diretto.
Esiste un’altra Italia, anche se non se ne possono leggere le voci senza un’ombra di melanconia. Esiste una diversa sincerità, una freschezza dello sguardo, la curiosità, l’ironia con cui si guarda prima sé stessi e poi il mondo che si racconta, senza prendersi troppo sul serio. E’ un tono diverso, uno stile diverso. Continuiamo così.