La recensione di Daniella Sessa del libro di Michael Cunningham “Un cigno selvatico”
Declinazione fantastica del das Ewig-Weibliche, dell’eterno femminino, è trasformare il rospo in Principe. Il verde batrace si ammanta di azzurro e incanta di ricchezza, bontà e amore la dolce fanciulla che lo bacia. Tanto più potente la metamorfosi con la fanciulla sempre di mite temperamento, nobili princìpi, dedizione, pudore. Scene da una fiaba con il canone finale “E vissero felici e contenti” a sigillare secoli di future illusioni. Ma il futuro non è un’ilare endiadi, un il-ludere: il gioco dell’incantesimo svela al contrario le oscure trame dell’anima, della psiche, di Ψυχή disperata d’amore e mistero.
L’archetipo mitico e filosofico dell’amore è la favola “Amore e Psyche”. Spostando il confine più in qua nel tempo c’è la fiaba settecentesca di Jeanne-Marie Leprince de Beaumont “La bella e la bestia”. E ancora più in qua c’è “Bestie” di Michael Cunningham, racconto fiabesco tra i più belli di “Un cigno selvatico” (La Nave di Teseo, 2016).
Cunningham mette all’angolo la magia e trasforma l’incantesimo in disincanto. “(Dis)incanto” è anche il titolo della prefazione alle dieci fiabe scomposte dentro questo libro, aggraziato nella scrittura, rude nelle immagini. Si fa “entità vendicative” la penna di Cunningham e come quelle ha l’ambizione di “devastare soltanto i rari, coloro che chissà come hanno ricevuto in dono non soltanto giardini segreti e fasti principeschi, ma una leggiadria che fa sussultare gli uccelli posati tra i rami…”. Alla retorica provocazione “A chi non piacerebbe fare lo sgambetto a questa gente?” le fiabe – tra cui “Bestie” a chi scrive pare fungere da manifesto – rispondono con un uomo dall’arto di Leda, con Biancaneve costretta alla catalessi dal Principe, con Hansel e Gretel che bruciano la vecchia maniaca. Con Bella aggredita dalla Bestia oscena. O-scena. Fuori-scena.
“Il principe troneggia fra le matasse di pelliccia persa, fra gli artigli disseminati sulla pietra. Guarda con stupore il proprio corpo risanato”. Non è più in scena la Bestia, è fuori. Fuori dalla prigione di un corpo ripugnante.
“Lentamente il principe si volta offrendole un sorriso lascivo e bestiale; un sorriso predatore e famelico[…]Lei indietreggia. Con un sorriso vittorioso, emettendo un basso ringhio di trionfo, lui avanza”.
Il finale ad effetto rovescia la mistica goethiana: l’inadeguato diventa evento con un movimento al contrario. Bella si fa Cappuccetto Rosso davanti al lupo, il Principe resta Bestia, l’amore diventa stupro.
Pozza buia e melmosa può svelarsi la psiche. Cunicolo carsico di paure, invidia, rabbia, oscenità. L’osceno svela. L’osceno è un limbo di passi tra Bellezza e Verità: percorrere il fuori-scena è trascurare la maschera o ritrovarsela dentro come urgenza istintiva e belluina, come l’unica intima verità, che è la Bruttezza dentro la Bellezza. La rilettura di Cunningham vede nella Verità un’armonia perfida e bislacca.
La metamorfosi, dai miti primordiali fino al raffinato Ovidio, è ambivalente: non restituisce un universo rasserenato di affetti. Anzi. Rare parole e leggere immagini non salvano il bel Narciso dalla morte, né impediscono alle ambizioni di Aracne di trasmigrare in un corpo peloso e ripugnante, né alla ritrosa Dafne di essere mutata in corteccia e foglie. I decreti delle divinità, che nel simbolo pagano accolgono infine la pietà, nelle fiabe tradizionali derogano e permettono l’illusione del ritorno alla Bellezza come canone dell’equilibrio socioaffettivo. Cunningham, battendo una via non originale ma risolta in una felice scrittura dark, ribalta una verità: la Bellezza non offre più riparo e può essere inganno dei segni e dei sensi. Ribalta la stessa idea platonica dell’amore come caduta dell’anima nella Bellezza del corpo. Voleva Psyche svelare l’inganno del buio che travestiva il suo amante bellissimo e dotato di armi affilate.
Già era in Apuleio, per ossequio alla milesia, l’allusione sessuale. Psyche è di “insatiabili animo”, curiosa “Guardava stupita le armi del marito e, tratta una freccia dalla faretra, volle provare la punta sul polpastrello del pollice”. L’erotismo è la chiave che disserra le porte dell’inconscio, con buona pace di Freud. Bella è in continua avvertenza erotica: considera sacrificio del padre non molestare le figlie, si chiede con speranzoso compiacimento “Chi l’avrebbe conquistata padre o bruto?”, è quasi delusa dall’irreprensibilità della Bestia “Ovviamente lo sapeva che sarebbe stato selvatico e pericoloso e puzzolente. Non aveva previsto invece questo ménage animalesco ma galante”. Bella è irrequieta per la convivenza “annacquata, desiderosa di essere amata di un amore tutto per sé. O di sé? Torna Psyche con la sua hybris.
“E se fosse stato possibile guarirlo, se fosse stato possibile riportarlo indietro dal baratro della morte? A Bella piaceva un sacco l’immagine di lei che girava fieramente le spalle ai bei tomi del villaggio…”.
Il principe è davanti a lei – che lo avrebbe voluto anche Bestia – bello e con la “mascella volitiva” ed è una sua creatura. Chi deve stupirsi se poi quel Principe l’aggredisce? Non Bella, suggerisce Cunningham. Non Bella, che conteneva in sé il desiderio bestiale, che partorisce un altro sé, che in spregio della lampada di Psyche caccia fuori dalla scena ciò che la natura aveva preservato: la Bellezza. Ogni amore è amore di sé, riflette un bisogno primario e oscuro dell’io: lo specchio d’acqua del Principe, un Narciso degno erede di Wilde, ha la superficie increspata. Così la dualità “La Belle e la Bête” viene tradita e tradotta nel plurale “Bestie”.
La Bruttezza ha asilo nella Bellezza. A Cunningham più che la psicanalisi fa eco Virginia Woolf che nello stupendo suo “Orlando” afferma “Perchè l’amore ha due parti di ogni membro e l’uno è l’esatto opposto dell’altro. Eppure, essi sono così strettamente connessi che non è possibile separarli“.