![Un quadro nella caffetteria culla del futurismo a Firenze, le Giubbe Rosse](https://www.barbadillo.it/wp-content/uploads/2016/09/scansione0012-310x233.jpg)
Per quasi due secoli in Italia insegnare materie umanistiche e, in particolare, Lettere, ha voluto dire raccontare una grande narrazione fondata sul nesso letteratura-nazione-storia. Dagli inizi del XIX sec. le opere letterarie, più di altre forme artistiche, hanno rappresentato, infatti, i valori dell’identità e dell’unità nazionale. E gli insegnanti, a detta di Romano Luperini (Tramonto e resistenza della critica) erano i “mediatori” del vincolo Patria-Letteratura e, de facto, gli artefici della fondazione di un canone poetico che ha contribuito alla elaborazione e sedimentazione dei miti popolari intorno ai quali si è costruita una coscienza collettiva nazionale. Va da sè che quella che con voluta semplificazione Gianluigi Simonetti chiama la “Letteratura di una volta” grondasse impegno civile e morale e la Scuola proponesse e veicolasse lo stesso sistema valoriale.
Oggi il virtuoso legame Letteratura-Morale è assai meno scontato. Manca da parte degli scrittori italiani uno “stile etico” (Gabriele Frasca) indignato e risentito che denunci le storture della nostra epoca belluina, mentre vige presso i docenti di scuola una sorta di appeasement, un atteggiamento rinuciatario e accomodante verso chi detiene il timone di uno Stato servo dei dettami della finanza e arroccato nella difesa dei privilegi di una selezionata oligarchia. E se è indubbio il tradimento degli intellettuali inferto alla tradizionale e idealistica “missione del dotto”, disegnare una mappa del senso del proprio tempo e spiegarla agli “ottentotti”, altrettanto colpevole è il silenzio omertoso dei docenti. Un tempo l’intellettuale si ergeva a faro e guida della società, funzione resa possibile dall’autonomia corporativa del suo ruolo quale garanzia di universalismo di valori e di libertà. Negli anni Settanta – continuo a scorrere le pagine di di Luperini – Franco Fortini dichiarava che sempre più esigua era l’indipendenza degli uomini di cultura dai centri di comando e sempre più manifesta l’accusa di inutilità che pendeva sul loro capo. La figura del vero sapiente negli ultimi decenni ha coinciso con quella dell’animal laborans (Bauman), del tecnico o dello specialista. È oramai un dato di fatto che fuori dei meccanismi della produzione – l’editoria stessa è una industria -il dotto non può resistere.
Ecco perché il potere del linguaggio si è convertito in linguaggio del potere e il maître à penser, in molti casi, è diventato la cassa di risonanza del dominus di turno. In modo analogo, il declassamento della figura dell’insegnante è sotto gli occhi di tutti talché diventa addirittura superfluo parlarne. Esso ha seguito un iter parallelo a quello dell’intellettuale, ma forse ancora più precipitoso. Ridotti a “burocrati” della circolare ministeriale, costretti a fare i conti con instabilità, mobilità, flessibilità, i docenti, diventati l’emblema stesso del precariato esistenziale degli anni 2.0, agiscono da bravi esecutori di ordini e direttive non sempre chiari. Eppure senza spirito critico una società muore, senza contraddittorio le menti si assopiscono, con la progressiva burocratizzazione scolastica si ingessa la creatività e si mortifica la fantasia.
Dove è finito l’intellettuale “outsider” di Edward Said, il contestatore, privo di dèi e miti (il denaro e il potere) che possano ingannare la sua onestà? Chi comanda -è nell’ordine delle cose – frena la possibilità del cambiamento, impone stereotipi e categorie riduttive che limitano empiti di sorta, gli uomini di cultura devono per questo essere attrezzati a porre un argine all’arroganza dei potenti. Il rischio è chiaro: quanto più si assiste ad un processo di marginalizzazione del ruolo civile dello scrittore, tanto più da quel confino imposto deve levarsi tonante la voce del suo dissenso. E analogamente, quanto più si assiste ad una managerializzazione delle istituzioni educative, tanto più deve rinascere tra i docenti uno spirito di corpo e un rigurgito di orgoglio che tragga alimento dalla consapevolezza di fruire e di far fruire della bellezza dei classici della nostra letteratura. Che non ci hanno certo insegnato ad appendere le cetre alle fronde dei salici.