La filosofia della storia, sorta con lo scopo di ricercare un significato nella storia ed una possibile visione teleologica delle vicende umane può dirsi nata con l’opera La philosophie de l’histoire, La filosofia della storia, appunto, scritta da Voltaire nel 1765, anche se la ricerca di un senso della storia è di gran lunga precedente. Mentre l’ultimo grande tentativo di filosofia della storia, è rappresentato, per quanto ci riguarda, dall’opera di Karl Jaspers, Origine e senso della storia, con la geniale individuazione dei cosiddetti «periodi assiali», ossia dei momenti di svolta della storia umana, come quello avutosi attorno al 500 avanti Cristo nel quale si registra in simultanea la predicazione del Buddha, il magistero di Confucio, le speculazioni dei pre-socratici e i vaticini dei profeti ebrei.
È noto come la filosofia della storia sia oggi screditata, soprattutto nell’ambiente culturale italiano, specie dopo che Benedetto Croce ne criticò ampiamente presupposti e fini. Essa è oggigiorno ritenuta una forma culturale obsoleta, stantia. Peraltro, già lo spirito acuto di Max Weber, ebbe ad esprimersi molto polemicamente nei confronti delle scienze storiche della cultura, sostenendo come queste scienze insegnando a comprendere i fenomeni culturali, politici, artistici e sociali dell’umanità non erano in fondo capaci di rispondere alla questione se questi fenomeni culturali fossero degni di sussistere, e neppure se valesse la pena conoscerli.
In effetti, portando il ragionamento di Weber alle sue estreme conseguenze, se si riduce la storia e l’uomo alle premesse riduzioniste del darwinismo in un’ottica storicistica, esulando da qualsiasi orizzonte di senso e presupposti ideali come fanno le scienze universitarie moderne, è chiaro che ad esempio la stessa figura di un Cesare perderà molto del suo significato e del suo fascino, e per nulla desterebbe un reale interesse in chi fosse interessato a vedere nella storia un telòs, un fine, uno scopo, riducendosi magari sotto le lenti di una visione progressista pacifista all’immagine di un bruto guerrafondaio, o se considerata positivamente nell’ottica secolarizzata propria del darwinismo sociale al massimo a quella di un capopopolo con spiccate qualità individuali.
Molto condivisibile ci pare quanto ha scritto in questi giorni proprio su Barbadillo l’esimio storico medievista Franco Cardini. È vero, oggi – come scrive Cardini – si vive alla giornata, con molte preoccupazioni per questo fantomatico ‘futuro’ che mai arriva, dato che in fondo un tempo esiste ed è il presente, e appunto, pensando al futuro ed immemori del passato questo presente in termini qualitativi ce lo giochiamo bellamente. “La storia – dice Cardini – come passato interessa sempre di meno, mentre come “presente in funzione del futuro” è disciplina emarginata e contestata”, eppure è risaputo che nell’antica Roma ciò che massimamente distingueva i patrizi dai plebei era la loro coscienza di non essere degli individui isolati, ma frutto di una storia familiare e patria che aveva radici nel divino, tramandatasi attraverso il racconto delle origini e delle gesta degli antenati. Cicerone, in questo senso, asseriva che per un uomo ignorare ciò che è accaduto prima della sua nascita significava restare bambino a vita. E oggigiorno, con il misconoscimento di una coscienza di razza e stirpe, con l’ignoranza del proprio passato, delle proprie origini, ognuno di noi è un plebeo, un uomo senza patres, utile idiota di un sistema, quello capitalistico, che pare diretto a propiziare un ideale animale di uomo: poiché gli animali, a differenza degli uomini, non posseggono annali né altari, non hanno cimiteri, non hanno patria.
Ma, non solo la storia è andata a farsi benedire, in tutto il versante umanistico-letterario le cose non vanno meglio, anzi. La filosofia pare aver già da tempo rinunciato alla speculazione metafisica e all’assiologia demandando alla scienza qualsiasi reale scopo gnoseologico. Tuttavia, una filosofia che si distacca dalla metafisica, smettendo di trarre fondamento dai princìpi primi, per dedicarsi ad ambiti circoscritti del reale, se non ad argomenti di bassa levatura intellettuale com’è il caso della cosiddetta “popsophia“, buona al massimo per allietare le soirée del ceto medio semicolto e progressista, non può che portare ad un misconoscimento di ciò che significa realmente conoscenza, e ridurre il parere che di essa se ne può avere al punto di vista del quidam de populo, per cui conoscere o non conoscere fa lo stesso, per cui conoscere non serve a nulla. Oggi, invece, c’è più che mai bisogno di sapere da dove veniamo, ma anche di sapere dove stiamo andando e se questa strada è un viaggio verso Itaca o un naufragio. Da qui la necessità di un’indagine sull’origine e il senso della storia che però sia inserita in un processo vivo e vitale di disvelamento dell’essere.
Siamo ben consci di come la storia umana sia oltremodo complessa, per poter giungere a delle conclusioni in merito. Tuttavia, non possiamo esimerci dall’interrogarci su di essa tenendo conto dei segni offertici dagli avvenimenti. Una cosa è certa, progresso scientifico o tecnico, e progresso morale e spirituale sono due cose ben distinte. E mentre il progresso scientifico e tecnico della nostra epoca appare indubitabile, più difficile è constatare l’effettività del progresso morale e spirituale. Ma, in fondo, per chi reca in sé ancora un orizzonte metafisico, la storia è da vedersi quale «caduta nel tempo», quale cacciata dal paradiso, e il suo scopo dovrebbe essere proprio il ritorno degli esseri a quel paradiso perduto, per cui, per quanto ci riguarda,non cadremo né nell’utopia progressista di Kant, il quale vide nei furori della Rivoluzione francese un segno della disposizione storica dell’uomo a progredire, né ci lagneremo assieme a Francis Fukushima sulla fine della storia, perché in fondo siamo consci di come la storia umana, e quella singola di ogni essere, altro non sia che perfetta contingenza che proviene da un Oltre e a un Oltre deve far ritorno, essendo talvolta illuminata qua e là da qualche sprazzo di luce di quell’Oltre.