Addio al sindaco della «libera città di Zara». Titolo onorifico assolutamente inutile al quale, però, Ottavio Missoni ha sempre tenuto moltissimo. Il grande stilista di origina dalmata è sopravvissuto solo pochi mesi alla scomparsa del figlio Vittorio, inabissatosi nelle acqua caraibiche di Los Roques lo scorso 4 gennaio. Era già malato da tempo e in febbraio aveva compiuto novantadue anni, ma è probabile che il dolore per l’incidente in Venezuela abbia accelerato il suo declino. E’ morto oggi nella sua villa di Varese.
Con Ottavio Missoni non se ne va soltanto uno degli uomini che hanno fatto grande il Made in Italy e l’industria italiana della moda. Scompare anche un un testimone del Novecento, nel suo piccolo vittima e protagonista delle contraddizioni di un secolo. La Dalmazia, l’esodo, la terra strappata. Pur non facendone un “mito incapacitante”, un’ossessione fissata nel passato, Missoni ha sempre voluto incarnare lo spirito dei profughi cacciati via dalle terre italiane d’oriente.
Persino due anni fa, nei giorni particolari delle celebrazioni del suo novantesimo compleanno (nato l’11 febbraio del 1921) e dell’uscita della corposa autobiografia Una vita sul filo di lana, scritta con il giornalista Paolo Scandaletti e pubblicata da Rizzoli, lo stilista aveva trovato il tempo per partecipare a un convegno sull’esodo di Fiume, Istria e Dalmazia organizzato dall’Università dell’Insubria, a Varese, in occasione del Giorno del Ricordo.
Nato a Ragusa (oggi Dubrovnik), città dalmata allora sotto il regno di Jugoslavia, Missoni era figlio di un capitano di lungo corso d’origine friulana e di una discendente di nobile famiglia dalmata. All’età di sei anni si trasferisce con la famiglia a Zara, dove trascorre la giovinezza fino al 1941, quando parte militare per il Nordafrica. La terra strappata, abbiamo detto. La patria scippata, per sempre. «Sono stato quattro anni ospite di Sua Maestà britannica – raccontava Missoni – Quando nel ’46 sono tornato, Zara non c’era più e Trieste mi ha adottato. In verità ci avevo abitato già nel ’38 perché mia mamma pensava in grande e mi aveva iscritto a un liceo, Oberdan si chiamava. Ma quella scuola mi ha visto solo il primo giorno: non faceva per me. Sempre ripetente, sempre. Non ci andavo mai. Anche agli esami, non sono mai stato bocciato perché non mi son mai presentato. L’unica cosa era il disegno, era facile perché non te lo insegnava nessuno».
Parlando di quel lungo periodo di «Ospitalità britannica» lo stilista non tradiva la sua proverbiale ironia: catturato dai neozelandesi a El Alamein, con altre migliaia di compatrioti finisce in un campo di prigionia in Egitto. Non un campo qualsiasi, bensì uno di quelli destinati agli italiani da “rieducare” perché non disponibili a collaborare con il nemico. «Badoglio ci invitava a collaborare con gli inglesi, ma io e un gruppo di amici ci rifiutammo: chi cazzo è ‘sto Badoglio? Non godeva delle nostre simpatie. A un tenente maltese chiesi: “Che vantaggio c’è a firmare?” E lui: “Potrai lavorare”. La risposta più azzeccata mi venne in mente dopo: “Ci vuol ben altro che Sua Maestà britannica per farmi lavorare”».
La vita normale riprende nel ’46, quando Missoni ricomincia là dove la guerra l’aveva costretto a mollare: l’atletica. Aveva iniziato l’attività agonistica a 12 anni, diventando uno dei migliori quattrocentisti italiani: nel ’37, dopo una inattesa apparizione trionfale all’Arena di Milano sugli 800, arriva la Nazionale, a Parigi contro la Francia; mentre nel 1939 ottiene l’oro alle Universiadi di Vienna nei 400 piani. Dopo la guerra partecipa anche Olimpiadi del ’48, a Londra, supera brillantemente le eliminatorie nei 400 ostacoli ma in finale arriva solo sesto.
Nel frattempo l’esule dalmata si trasferisce a Milano e con l’amico e atleta azzurro Giorgio Oberwerger mette su una piccola società tessile, la Venjulia. Per Missoni sono anni felici e scapestrati, ricordava spesso le bevute di Pernod, con Gianni Brera, alle otto del mattino alla Gazzetta dello Sport, le cene del giovedì con gli amici all’Osteria Riccione, alle quali partecipano tra gli altri, Giovanni Arpino e Mario Soldati. In quegli anni frequenta pure quelli del Bertoldo, il bisettimanale umoristico: Guareschi, Marchesi, Manzoni, Walter Molino, lo studente di architettura Saul Steinberg e una ragazzina dalle trecce bionde che si chiamava Sandrina e portava i disegni di suo papà Giaci Mondaini. Nel ’47, Missoni, che era decisamente un bell’uomo, fa persino un provino da Mondadori e diventa protagonista di un fotoromanzo.
Nel ’53 si sposa con Rosita, conosciuta ai tempi delle Olimpiadi di Londra. La famiglia della ragazza possiede una piccola fabbrica di scialli e tessuti ricamati in provincia di Varese, così Ottavio fonde la sua precedente attività con quella degli suoceri e sposta la produzione a Sumirago. Il figlio del capitano di lungo corso, l’ex soldato di El Alamein ed ex atleta olimpico, rivela inaspettate doti artistiche e manageriali. Nel 1960 gli abiti da lui firmati iniziano ad apparire sulle riviste di moda e due anni dopo Missoni utilizza una speciale macchina da cucito, fino ad allora usata nella lavorazione degli scialli, per creare originali vestiti, leggeri, colorati, variopinti.
Nasce la «Linea Missoni», che rapidamente si afferma anche a livello commerciale. Nel 1970 Ottavio Missoni partecipa alle sfilate a Palazzo Pitti e a Milano, dando il via a quella che diventerà una favolosa carriera nel mondo della moda internazionale. Arazzi coloratissimi, patchwork, righe e fiammati arcobaleno e il famoso «put together», espressione con cui Ottavio spiega agli americani che si trattava di «mettere insieme» fantasie di punti e colori che mai nessuno avrebbe osato accostare, in un caleidoscopio di motivi e di tinte. Nel 1976, infine, apre la prima boutique personale nel capoluogo lombardo.
Di lì in poi è stata una cavalcata trionfale: nel 1979 allestisce a Milano una mostra di arazzi, che verrà poi riproposta con successo in moltissime gallerie in tutto il mondo, tra le più famose l’Art Museum University of California a Berkeley e la Yurakucho Asahi Gallery a Tokyo. Alcuni suoi modelli sono esposti persino in musei di fama mondiale, come il Metropolitan Museum of Art di New York. Nel 1979 Milano gli tributa la Medaglia d’oro di Benemerenza Civica, poi arrivano le onorificenze di Commendatore e Cavaliere del Lavoro conferitegli dal presidente della Repubblica. Nel 1983 sono suoi i costumi per Lucia di Lamermoor, interpretata alla Scala da Luciano Pavarotti e Luciana Serra.
Anche in età avanzata Missoni non era cambiato poi molto. A novant’anni era rimasto lo stesso “ragazzo” allegro e autoironico di sempre, e non aveva smesso di fare sport: nuoto, lancio del disco e del giavellotto: «Sono stato campione italiano dei 50 dorso: over 80, si capisce», diceva festeggiando i novant’anni. Il segreto? «Curo il mio giardino. Poi corricchio, faccio flessioni sulla panchina, un lancio con il giavellotto. Cinque minuti di tennis contro il muro, dieci servizi. Da maggio a settembre venti minuti di nuoto. Senza rinunciare a un bicchiere di vino buono e neppure a una sigaretta di tanto in tanto, anche se non è un comportamento da vero atleta…».