Pubblichiamo la seconda parte dell’intervento dell’ambasciatore Gianni Marocco sul rapporto Mussolini e le donne
I fascisti osteggiavano le pratiche sociali connesse con l’emancipazione femminile. Sfruttando il desiderio delle donne di identificarsi e di servire la comunità nazionale, il regime cercò un difficile, per molti versi impossibile, equilibrio tra modernizzazione ed emancipazione. Ciò fu evidente sin dagli inizi. Per quanto diffidenti nei confronti dell’esaltazione della forza operata dal fascismo, le donne erano, nondimeno, attratte dal suo forte spirito di sacrificio. Anche se non potevano fare politica, le donne comparivano nelle squadre punitive. Nel 1921, l’Almanacco della donna italiana di Silvia Bemporad registrò i neonati gruppi femminili nazionali e fascisti. Venticinquemila nei vecchi gruppi (Consiglio nazionale delle donne italiane, Cndi, una federazione di associazioni femminili e miste impegnate per il miglioramento della condizione sociale delle donne, fondato nel 1903 come ramo italiano dell’International Council of Women, istituito a Washington nel 1888 sul principio della assoluta indipendenza dai partiti e dalle confessioni religiose; Unione donne cattoliche e altri gruppi socialisti) e solo poche centinaia iscritte ai gruppi fascisti. Fino alla marcia su Roma del 28 ottobre 1922 le aderenti al movimento furono qualche centinaio.
Tra le fasciste della prima ora, alcune vecchie compagne di lotta del Mussolini socialista o interventista, come Margherita Sarfatti, Regina Terruzzi e Giselda Brebbia. Altre provenivano dai ranghi dannunziani delle “fiumane”, come Elisa Majer Rizzioli, la fondatrice dei Fasci femminili; Angiola Moretti, segretaria dell’organizzazione dal 1927 al 1930, e Rachele Ferrari Del Latte. Un gruppetto era costituito dalle sostenitrici sul campo di battaglia delle prime squadre fasciste, come la spavalda fiorentina Fanny Dini.
Queste donne avevano in comune il disgusto per la presunta mancanza di valori della società liberale, il rifiuto del socialismo riformista, il desiderio di uno Stato forte ed ordinato. I Fasci Femminili (il primo fu costituito a Monza il 12 maggio 1920 da Elisa Savoia) erano composti da donne italiane di sicura fede fascista e buona condotta morale, che avessero compiuto il ventunesimo anno di età. L’organo centrale era la Consulta, presieduta dal segretario del Partito e composta dalle ispettrici nazionali, dalla ispettrice della Gil, dei Guf, dal vice segretario del Partito, dall’ispettore del Partito per i Fasci Femminili e dalla commissaria nazionale dell’Associazione donne artiste e laureate. Il suo compito era indirizzare e coordinare tutta l’attività delle organizzazioni femminili del Partito. Il Fascio femminile era istituito presso ciascun Fascio di combattimento ed era retto da una segretaria. Quelli provinciali erano inquadrati nelle federazioni di provincia, rette da fiduciarie nominate dal segretario del Partito. Le associazioni femminili fasciste – Fasci femminili, Piccole (8/14 anni) e Giovani italiane (4/17 anni), dipendenti dall’Opera nazionale Balilla, e Massaie rurali, costituite da donne che risiedevano in Comuni a carattere rurale – erano organismi nuovi, ma di ridotta vitalità.
Il ruolo delle “visitatrici”
Una Consulta provinciale, presieduta dal segretario federale, aveva il compito di coordinare e di dare un indirizzo unitario a tutte le attività femminili delle singole province. Interessanti figure erano le Visitatrici, donne di particolare attitudine che visitavano le famiglie bisognose a scopo di assistenza morale e materiale, con speciale cura per ciò che riguardava la maternità e l’infanzia, riferendo periodicamente alla segretaria del Fascio di appartenenza. In effetti, la fondazione delle organizzazioni di massa delle donne comportava il riconoscimento che, in una forma o nell’altra, lo Stato moderno doveva soddisfare il desiderio di impegno sociale delle donne. La “perfetta donna fascista” divenne un ibrido, nuovo ed interessante: serviva i bisogni della famiglia e, al contempo, si faceva carico dell’interesse dello Stato. La maternità fu oggetto di pubblica esaltazione, a sostegno della forza nazionalista dello Stato. “La casa è il nostro fortino”, “il lavoro della donna deve essere assistenziale, prima sposa e madre e poi lavoratrice”, “progresso femminile, ma non femminismo”, “funzione angelica della donna che aiuta il guerriero a riposare» ecc. Una donna a casa, suddita felice che considera il lavoro esterno talvolta una triste necessità, apportatore di traviazione e pericolo.
Queste dichiarazioni si reiteravano in linea con tutta la politica ufficiale del regime e rievocavano, per alcuni, il concetto di massima che Mussolini aveva delle donne: le famose tre K tedesche «Kinder, Küche, Kirche», bambini, chiesa, cucina, alla base di tutta la politica guglielmina (ma non esattamente nazista) delle donne germaniche. Ma Mussolini era anche stato agitatore sociale e maestro: guardava avanti, non indietro. Per Helen Deutsch, allieva di Freud, una delle maggiori psicoanaliste freudiane, “le attitudini delle donne le fanno considerare compagne ideali per la vita… sono collaboratrici ideali che spesso ispirano i loro uomini e sono esse stesse felici in questo ruolo. Facilmente influenzabili, si adattano ai loro compagni e li capiscono. Sono le più graziose e le meno aggressive e vogliono conservare quel ruolo; non insistono sui propri diritti, semmai è vero il contrario. Sono facili da manipolare in tutti i modi purché si sentano amate”, e aggiungeva: “la loro capacità di identificazione non è un’espressione di povertà interiore, ma di ricchezza”.
Cosa prevedeva il diritto di famiglia italiano
Il diritto di famiglia italiano, disciplinato dal 1865 dal codice Pisanelli, improntato alla supremazia maschile, precludeva alle donne ogni decisione, di natura giuridica o commerciale (atti legali e notarili, stipule, contratti, firme di assegni e accensione di prestiti), senza l’autorizzazione del marito o del padre; era vigente e quasi nessuno percepiva la necessità di riformarlo. Nel codice di famiglia le donne non avevano il diritto di esercitare la tutela sui figli legittimi, né tanto meno quello ad essere ammesse ai pubblici uffici. Le donne, se sposate, non potevano gestire i soldi guadagnati con il proprio lavoro, perché ciò spettava al marito. Molti degli “illustri pensatori” del Risorgimento italiano si limitarono a ribadire la soggezione della donna. Secondo Gioberti, “la donna, insomma, è in un certo modo verso l’uomo ciò che è il vegetale verso l’animale, o la pianta parassita verso quella che si regge e si sostentata da sé”. Per Antonio Rosmini, “compete al marito, secondo la convenienza della natura, essere capo e signore; compete alla moglie, e sta bene, essere quasi un’accessione, un compimento del marito, tutta consacrata a lui e dal suo nome dominata”. Secondo Gaetano Filangieri, spetta alla donna l’amministrazione della famiglia e della prole, mentre le funzioni civili spettano all’uomo. Simili teorie furono alla base del diritto di famiglia dell’Italia unita, riformato soltanto nel 1975. Anche per quanto riguardava i diritti politici, il dibattito in Italia era stato assai poco acceso. Le stesse donne attive sulla scena politica costituivano un gruppo di eccezioni. Nell’Italia unita le donne vennero quindi escluse dal godimento dei diritti politici. Ma così era del resto in quasi tutta Europa. Solo nel 1971 le donne della democraticissima Svizzera ottennero il diritto di voto. Peraltro il primo stato europeo a riconoscere il suffragio universale fu il Granducato di Finlandia, allora sotto la sovranità zarista, con le prime donne elette al Parlamento nel 1907! Il voto femminile fu altresì legittimato nel 1920, durante la Reggenza italiana del Carnaro, la Città Stato di breve durata fondata da Gabriele d’Annunzio a Fiume.
Le femministe del 1919 al fianco di Mussolini
Il fascismo italiano fu definito un movimento camaleontico che cambiava colore secondo i potenziali alleati ed il mutevole terreno politico del primo dopoguerra. Quando il 23 marzo 1919 Mussolini fondò i Fasci di combattimento, in piazza San Sepolcro a Milano, ottenne i consensi delle femministe dell’epoca, chiamate suffragette, mettendo nel programma il “voto alle donne”. Le femministe storiche, in testa alle quali si collocava Anna Kuliscioff, per la sua battaglia a favore dell’estensione del voto alle donne, dopo la sconfitta del 1925 furono costrette a volgere il loro impegno nel volontariato sociale o nell’attivismo culturale. Il loro diritto di partecipare era stato, almeno formalmente, riconosciuto con la concessione del voto amministrativo dello stesso anno: solo formalmente, perchè furono abolite le elezioni locali quasi in contemporánea.
Corollario della maternità, la famiglia. Per Balbino Giuliano, ministro dell’Educazione nazionale dal 1929 al 1932, essa rappresentava “quel valore morale che dà alla vita la sua santa stabilità, essendo la famiglia il fondamento della società di tutti i tempi. Nel culto della famiglia si è rivelata, all’alba della nostra storia, la virtù essenziale della stirpe latina: cioè la capacità di tradurre i più alti ideali dello spirito in norma che valga a difendere la realtà della vita sociale dal pericolo dei sogni di utopistica perfezione ed a portarla gradualmente in alto colla continuità di una sicura disciplina. La famiglia è precisamente l’istituto, in cui viene codificato in norma morale e giuridica il più potente impulso d’amore che investa l’universalità di creature umane così da spingerle addirittura allo spontaneo dono della propria esistenza. Nell’istituto della famiglia le creature umane trovano l’amore santificato in dovere, ed apprendono a superare la propria individualità, ed a porre l’ultimo fine della loro attività nel bene dei figli che rappresentano la continuità della vita… Dunque la famiglia è non solo fondamento della società, ma anche proiezione sacra del Divino”. (Cfr.http://www.ilgiornaleditalia.org/news/la-nostra-storia/872027/Fascismo-e-culto-della-famiglia.html).
Il modello femminile fascista
Il modello femminile fascista, insistendo sulla necessità di un popolo numeroso e giovane come condizione necessaria per realizzare l’impero, concepirà una donna fascista ideale con un fisico prestante, che le permetterà di esser madre di tanti e sani figli, futuri soldati: per questo una preparazione ginnica di buon livello negli istituti femminili e lo sviluppo di discipline sportive. Seppure il ruolo sociale della donna sia prettamente domestico, in linea peraltro con l’epoca precedente, tuttavia non mancano donne, specie nel mondo dello spettacolo e del giornalismo, che s’ impongono in posizioni alle quali i colleghi maschi non possono accedere. Inoltre, le iscrizioni di donne al Partito nazionale fascista sono numerose. In linea con una politica di sobrietà e semplicità incoraggiata dal regime, la moda scoraggia la cosmesi: si riteneva il trucco una manifestazione di frivolezza. In quegli anni nasce, comunque la moda italiana (viene tra l’altro inaugurato il grande Palazzo della Moda, progettato da Ettore Sottsass, a Torino nel 1938) e si afferma anche nel paese la sfilata di moda con la passerella rialzata (per permettere la vista, oltre che del vestito, anche delle scarpe), al posto delle precedenti rappresentazioni teatrali. Comincia ad essere diffuso l’uso di modelle ed attrici come testimonial pubblicitarie. Una donna con più ruoli. In quanto madri, le donne dovevano far quadrare il cerchio: nutrire ed educare i figli, con scarse risorse; trovare lavoro mentre le discriminazioni contro l’occupazione femminile aggravavano le condizioni della forza lavoro dequalificata, instabile e disorganizzata; orientarsi nel labirinto della burocrazia assistenziale agendo, per necessità e costrizione, come persone pubbliche, mentre l’ideologia ufficiale le dipingeva come angeli del focolare. In quanto spose, dovevano costituire un rifugio per i propri uomini, intimoriti ed abbattuti. In quanto sorelle o figlie non ancora sposate, era loro richiesto l’adempimento di funzioni materne.
Alle donne veniva imposto di mettere il cibo in tavola e fabbricare carne da cannone. Nel momento in cui la dittatura fascista iniziò ad attuare una politica estera più aggressiva e la prospettiva del sacrificio dei figli e dei mariti si faceva minacciosamente vicina, le mogli, le madri, le sorelle e le figlie iniziarono a cercare nuovi motivi di solidarietà nei legami familiari e nelle associazioni religiose. Mai articolate in un movimento organizzato, le voci delle donne, che risuonavano alle fontane pubbliche, nei cortili delle case popolari, ai cancelli delle scuole ed alle bancarelle dei mercati, divennero pressoché mute quando Mussolini chiese sacrifici per la Patria.
Fascismo e gioventù femminile
Un’attenzione particolare merita il rapporto del fascismo con la gioventù femminile. Le generazioni dopo la Grande Guerra avevano occasioni di divertimento completamente diverse da quelle delle loro madri, in quanto la cultura di massa le metteva a contatto con costumi sociali e sessuali maggiormente liberi.
Sotto il regime crebbero due generazioni di italiane: la prima divenuta adulta quando il fascismo salì al potere sulle macerie del terremoto sociale scatenato dal primo conflitto mondiale; la seconda giunta alla maturità all’apice della dittatura, sotto l’influenza dell’emergente cultura di massa. Le prime, disinibite dall’assenza degli uomini durante la guerra, con le prospettive matrimoniali distrutte o rinviate dagli avvenimenti bellici, erano deluse dall’Italia liberale. La seconda generazione era la componente femminile della Gioventù del littorio ed erano toccate dalla cultura cosmopolita di massa proveniente dall’America attraverso film, canzonette, moda, romanzi. Il “Patriarcato fascista”, ancorché strombazzato, spesso con tanto di attiva adesione femminile, stava in effetti perdendo progressivamente la sua battaglia. La modernità era l’opposto di patriarcato. E non era concepibile la modernizzazione senza l’emancipazione. D’Annunzio ed i suoi corifei non erano dei sultani ottomani. Inutile girarci attorno.
Il pensiero di Mussolini
Che cosa ne pensava Benito Mussolini? Egli difficilmente avrebbe sottoscritto parola per parola quanto poi enunciato da Julius Evola in Elogio dell’Harem:
“La donna realizza se stessa come tale, si eleva allo stesso livello dell’uomo come Guerriero e come Asceta, in quanto è Amante e in quanto è Madre. Al gesto del Guerriero e dell’Asceta che, l’uno a mezzo dell’azione pura, l’altro a mezzo del puro distacco, si affermano in una vita che è al di là della vita, nella donna corrisponde quello del darsi tutta ad un altro essere, dell’essere tutta per un altro essere, sia esso l’uomo amato, tipo dell’Amante – donna afrodisiaca, sia esso il figlio, tipo della Madre – donna demetrica, in ciò trovando il senso della propria vita, la propria gioia, la propria giustificazione”.
Mussolini veniva pur sempre dalle fila socialiste, era un romagnolo anticlericale, ma assai diffidente verso ogni forma di paganesimo e “pensiero tradizionale” (Indietro non si torna!ripeteva ai nostalgici dell’Ancien Régime), sapeva annusare ed interpretare i desideri delle masse, e troppo tardi si rese conto dell’inutilità degli sforzi per mutarli. Come scrive Wilhelm Reich in Psicologia di massa del fascismo, il successo di uomini come Mussolini o Hitler si ottiene quando «la sua concezione personale, la sua ideologia o il suo programma trova riscontro nella struttura media di un largo strato di individui che fanno parte della massa». Ma non tutto è calcolo. Ciò apparve ben chiaro quando le atlete azzurre (scese in campo per la prima volta nelle Olimpiadi del 1920, ad Anversa) cominciarono a misurarsi in ogni disciplina, conquistando il cuore di tifosi e di molti appassionati. Il primo oro femminile arriva nel 1936, quando Trebisonda Valla, per tutti Ondina, a Berlino, alle Olimpiadi del Führer, s’impone nella gara degli 80 metri ostacoli dopo aver stabilito nella semifinale anche il nuovo record del mondo. Accolta in patria con i massimi onori, la ventenne Ondina è l’atleta più popolare dell’epoca e Mussolini si farà immortalare con lei. Il governo fascista la elegge ad esempio della sana e robusta gioventù nazionale. La stampa la definisce “Il sole in un sorriso”.
Con Claretta
È certo con Claretta che Benito Mussolini ci rivela la reale natura dei suoi rapporti con le donne, non tanto con la femminità recalcitrante, bizzosa, incostante, ch’egli ben conosce tra l’altro, quanto la personalità di un maturo amante fiducioso, che elegge l’amata, se non a consigliere, a confidente, a fiduciaria, alla quale confida pene, crucci intimi e familiari, ma pure questioni di Stato, angosciosi dilemmi della política internazionale e della guerra che devasta l’Europa; e che presto coinvolgerà l’Italia. Il 1939, quando Mussolini ha 56 anni e Claretta 27, segna lo spartiacque. Nella storia d’Europa e nel rapporto tra la coppia. Mussolini si sente solo di fronte a responsabilità enormi. Sa di dover ostentare fiducia ai collaboratori, ma tale fiducia non risiede nel suo intimo, spesso abulico, che sfoggia volontà e granitica energía, ma che sa esser recitazione. Il vero Mussolini, per disgrazia dell’Italia, sarà quello del 25 luglio 1943, desideroso, in fondo, di esser tolto di mezzo alla vigilia dell’inevitabile sconfitta, e poi quello di fine aprile 1945, quando non riuscirà a mettere in salvo né Claretta, né i suoi fedeli, né se stesso, né la sua residua dignità.
Mussolini diventerà l’epitome dell’italiano medio, con le sue virtù e le sue molte debolezze. Se sul momento, al massimo molte cose erano intuite, diari, memoriali ed archivi ci restituiscono ora il ritratto a tutto tondo di un uomo già anziano, che si districa a fatica tra durezze di ruolo e debolezze disarmanti, innamorato come un adolescente, che non ha il pudore di esibire debolezze, paure, insonnie, agitazioni, che cade in ex abrupto contraddittori, dozzinali; che si affida totalmente a quella donna, Claretta, non amata dagli italiani “che sanno”, tanto più giovane ed immatura come per un bisogno insopprimibile di spogliarsi, di raccontarsi; quello smarrirsi nell'”eterno femminile” che produce nell’uomo, chi più, chi meno, l’ inconfessato desiderio di ritorno nel protettivo utero materno (il paradiso perduto di Otto Rank).
Dal 1939 si realizza un notevole grado d’interazione tra l’Uomo forte d’Italia e la sua giovane amante. Nulla di nuovo o di eccezionale, sia chiaro. La maggioranza dei grandi uomini della storia, a cominciare da Napoleone, forse non lo sarebbero divenuti senza il pungolo ambizioso di una donna. Ma Mussolini, se aveva subìto sempre l’ascendente femminile, se la sua natura sensuale aveva fatto stragi di cuori femminili, mai fu succube di una donna come con Claretta. Certo per la sua personalità, intelligenza, disponibilità all’ascolto ed ammirazione, più che per la sua giovinezza, che talora faceva dire all’uomo più potente d’Italia: “vorrei tenerti come una figlia, non prenderti mai” (Cfr. Claretta Petacci, Verso il disastro. Mussolini in guerra. Diari 1939-1940, a cura di Mimmo Franzinelli, Rizzoli, 2011, p. 7). Vanità ingenue e narcisismo compiaciuto punteggiano l’atteggiamento di Ben verso Claretta, nell’ambito di una relazione assai emotiva, nella quale si mescolano litigi, sincerità disarmanti e menzogne crudeli, ma il tutto, anche le cose più banali o mediocri, come riscattate da una fiducia reciproca che tutto assorbe e perdona. Sino alla fine tragica, forse inevitabile.
I confini tra pubblico e privato
La dittatura mussoliniana ridefinì i confini tra pubblico e privato, modificando i rapporti tra intervento pubblico ed iniziativa individuale, tra impegno collettivo e vita privata. Sullo sfondo i miraggi di uno “Stato totalitario”, tanto invocato, quanto remoto dal prendere consistenza e vita, e di “un nuovo italiano”. Mussolini capiva sin troppo bene che questo ipotetico italiano nuovo non avrebbe potuto diventare tale che attraverso una nuova italiana, madre, sorella, moglie, maestra. Con il fascismo, pur sconfitto, e la contemporanea secolarizzazione della vita cittadina, con lo stesso Mussolini “femminista recalcitrante”, la donna italiana acquista così la coscienza piena della propria forza, del proprio ruolo, del proprio potere, della legittimità delle proprie aspirazioni. Dovrà attendere gli anni Sessanta e la pillola anticoncezionale per essere, finalmente, padrona del proprio corpo. In un processo peraltro non facile, né rapido, né automatico. (2 – Fine)
La prima parte dell’intervento dell’ambasciatore Marocco su Fascismo e questione femminile