Se la Mafia è familismo e se il familismo è uno dei tratti aggreganti della cultura dei paesi del Mediterrano, sì, quel Mare Nostrum con al centro proprio la tanto vituperata Sicilia, allora Giuliano Ferrara, l’Elefantino, ha proprio ragione: “La mafia è l’essenza della Sicilia”.
Certo, come sentenza, presa in tutta la sua crudezza, è poco digeribile. Con qualche premessa, invece, e un po’ di sano pelo sullo stomaco, forse diviene più commestibile e saporita. Se liberassimo lo sguardo poi da un certo paraocchismo ipocrita, che si fa al contempo araldo di un certo civismo antimafioso elargitore di patenti di correttezza, ma ingessato come ogni altra forma di snobismo, capiremmo che Ferrara è un simpatico provocatore. Un attestato di stima che è direttamente proporzionale alla sua onestà intellettuale.
Sì, onesta: è questa la parola più azzeccata per comprendere il rapporto dai tratti indefiniti che mette assieme, parlando di Sicilia, legalità e cultura. Certo, si può obiettare ulteriormente circa l’assunto se la Trinacria sia in effetti o no, nella sua essenza, mafiosa. Ma non si può negare che alcuni tratti propri della mafiosità sono mutuati del tessuto isolano. In primo luogo c’è da prendere in seria considerazione, appunto, il feticcio familista, che è da sostrato all’organizzazione dei clan. C’è poi quello strano sinolo tra sacralità religiosa e ossessione della morte che manda in estasi ogni uomo d’onore. Anche in questi caso ci troviamo innanzi a dei tratti che sono propri soltanto alla sicilianità. Basterebbe gettare una sguardo alle processioni pasquali del venerdì santo per cogliere questi elementi nella loro spaventosa immediatezza.
C’è poi un terzo fattore che fa sì che la mafiosità trovi nella sicilitudine, acqua entro cui navigare: la pigrizia. Non neghiamolo, la prepotenza mafiosa altro non è se non un motivo ben argomento di ottenere quanto più possibile con il minor sforzo ipotizzabile. Una via del tutto comoda.
Difficile accantonare questi elementi. Anche perché non appartengono alla sola Sicilia, ma a tutta la penisola italiana. Anche su questo Ferrara ha ragione, come ha ragione pure a sostenere che Andreotti sia nella concretezza un vero modello d’italianità. Se è vero, infatti, (ed è vero) come sostiene lo stesso Elefantino, che “c’è una mafia che ha convissuto coi cardinali, gli arcivescovi di Palermo, coi preti, parroci, con i sindaci e con l’esercito americano che ha liberato l’Italia”, se ne può trarre la conseguenza che l’ormai trapassato Giulio ha rappresentato un vero e proprio modus vivendi di stampo italiota, che le categorie giudiziarie della sinistra potranno stigmatizzare (forse giustamente), ma mai in alcun modo comprendere. È solo questione di pelo, ma sempre e solo, sullo stomaco.
Morale della favola: l’unica antimafia che potrà davvero sconfiggere la mafia deve e dovrà parlare in siciliano. I modelli di riferimento ci sono già: Paolo Borsellino, Beppe Alfano e un “parrino” prossimo alla beatificazione, Don Pino Puglisi.