Vi siete mai chiesti di quante leggi si compone il nostro ordinamento giuridico? Per non parlare dell’attività normativa delle Regioni e dell’Unione Europea…Tra le questioni dolenti nel nostro Paese, infatti, non ultima è quella riguardante l’impossibilità di stimare quante siano le leggi (e gli atti aventi forza di legge) attualmente in vigore.Non vi è istituzione che sia in grado di dare una risposta definitiva. In sostanza, viviamo in un contesto in cui l’ignoranza di una legge non ne giustifica la violazione da parte del cittadino ma, al tempo stesso, non pone questi nella condizione di conoscerla. È una situazione “democraticamente insostenibile”, e anzi, parlare di democrazia non ha più senso quando il cittadino si trova sperduto in un labirinto di norme. A ciò si aggiunga che le stesse norme sono soggette ad interpretazioni, a volte discordanti, da parte della prassi e della giurisprudenza, e ciò complica di non poco il quadro.Alcune stime parlano di oltre centomila leggi vigenti in Italia;il confronto con gli altri Paesi europei è spietato– Gran Bretagna tremila leggi vigenti, Germania cinquemila, Francia settemila – e questi dati ci conducono a riflessioni di più ampio respiro sull’idea del diritto e della sua evoluzione nei secoli.
Con l’espressione “diritto comune”(in latino:ius commune), si definisce l’esperienza giuridica che si sviluppò nell’Europa medievale – dal secolo XI fino alle codificazioni ottocentesche. Per la prima volta dopo secoli, si tornava a citare frammenti del Digesto giustinianeo per la risoluzione di casi pratici. Il risultato centrale dell’attività di Irnerio e dei suoi discepoli –i dottori bolognesi, fondatori della prima Università al mondo – fu un’opera di riscoperta di un metodo di indagine che affondava le radici nell’esperienza classico-romana; non si trattava della riproposizione pedissequa di leggi positive, ma di un’attività di “illuminazione” di un diritto di per sé già esistente in natura, attraverso la conversione di un testo – antico di secoli e per secoli dimenticato: il Corpus Iuris Civilis voluto dall’imperatore d’Oriente Giustiniano – in una normativa vigente e suscettibile di immediata applicazione pratica da parte degli operatori del diritto. La dottrina filosofico-giuridica ha parlato a tal proposito di“diritto naturale”(dal latino:ius naturale),presupponendo l’esistenza di una norma di condotta universalmente valida e immutabile, preesistente ad ogni forma storicamente assunta dal diritto positivo, in grado di realizzare il miglior ordinamento possibile della società umana. I diritti positivi sono realizzazioni imperfette e approssimative della norma naturale perfetta, la quale può servire in via sussidiaria per colmare le lacune del diritto positivo.
La romanità arcaica fondava il proprio ordinamento giuridico sul trinomio Fas–Mos–Ius, in una concatenazione irresistibile tra il divino (fas), gli usi e i costumi radicati nella coscienza sociale (mos) e le norme di condotta che potevano trarsi dalle due precedenti realtà (ius) grazie all’opera “creativa” di giuristi attentamente selezionati ed educati. Il mos maiorum, cioè “gli usi e i costumi degli antenati”, era quell’insieme di norme che venivano generalmente osservate dal popolo in virtù della loro derivazione da antiche tradizioni, talmente remote che non se ne conosceva l’origine. Essere fedeli al mos maiorum significava riconoscersi membri di uno stesso popolo, avvertire i vincoli di continuità col proprio passato e col proprio futuro. Lo ius consisteva invece nel diritto enunciato dai giuristi per la soluzione di una caso pratico ovvero nelle norme contenute in una legge approvata dal popolo riunito in assemblea. Tuttavia, alla legge si ricorreva solo eccezionalmente, essendo considerata un mezzo per intervenire sulle tradizioni e cambiarle quando queste si rivelavano inique, dannose o inadeguate alle nuove esigenze della collettività. La legge positiva (cioè la norma scritta, “posta” da un legislatore o da un’assemblea) fu sempre vista con sospetto – i romani non ne ebbero più di qualche centinaio in oltre mille anni di storia – per la loro rigidità ed astrattezza, spesso ingiuste nei confronti di una realtà umana riccamente variegata nella sua concretezza storica.
Ma dopo l’esperienza del “diritto comune” medievale, attraverso il quale rivisse in Europa il sistema tradizionale del diritto romano, dal XV secolo in avanti si passa ad una concezione diversa, in corrispondenza con la progressiva “statualizzazione” del diritto moderno. Con il XVI e XVII secolo si afferma l’assolutismo dei sovrani europei, in virtù del quale il Re aumenta la propria attività legislativa intaccando il diritto comune. Il primato non è più del giurista, e quindi del diritto naturale che egli interpretava e scopriva, ma dell’autorità statale – incarnata nella volontà del sovrano (prima) e nelle assemblee democratiche (dopo). Il diritto naturale cede il passo al volontarismo giuridico.
Il sistema del diritto comune si è conservato, fino a tempi recentissimi, proprio in quella Gran Bretagna che lo scorso 23 giugno ha mostrato insofferenza nei confronti dell’Unione Europea e del suo intreccio di regolamenti soffocanti per cittadini e imprese – votando per l’abbandono dell’organizzazione attraverso un referendum popolare. Quella Gran Bretagna che non fu investita dal processo di codificazione del diritto e che ha sempre conservato un legame con la tradizione, anche nei periodi di crisi più acuta; che ha sempre guardato con sospetto il diritto positivo; che continua ancora oggi a curare la formazione pratica del giurista; che infine, attraverso il suo sistema di “common law” (diritto comune, per l’appunto), con il primato del diritto giurisprudenziale, sembra riproporre oggi la questione dello stretto rapporto tra diritto, legge e libertà.
@barbadilloit