![Jean d'Ormesson (1925-) oggi](https://www.barbadillo.it/wp-content/uploads/2016/08/imageItem1.jpg)
Sono nato in un mondo che guardava indietro. Dove cioè il passato contava più del futuro. Mio nonno era una bel vecchio, assai eretto nella persona, che viveva nel ricordo. Sua madre aveva ballato alle Tuileries col duca di Nemours, col principe di Joinville, col duca d’Aumale, e mia nonna a Compiègne col principe imperiale. Ma solo alla monarchia legittima rimaneva appassionatamente legata, attraverso tanti disastri, tante barricate, tante cittadelle assediate, tanti ribelli trionfanti, l’intera mia vecchia tribù. I domani che cantano alle orecchie dei profeti non le dicevano mai nulla di valido. L’età dell’oro era dietro di noi, con tutta quella dolcezza di vita di cui persistevano nelle nostre leggende gli echi attutiti ma che i più giovani di noi non avevano mai conosciuti[1].
È la Francia profonda, la Francia di Giovanna d’Arco e di Charette de La Contrie, del Santo Curato d’Ars e di Péguy, quella che emerge dalle pagine di Au plaisir de Dieu, il capolavoro di Jean d’Ormesson. Tuttavia l’opera di quest’anziano accademico di Francia, unico scrittore a ricevere ancora in vita, assieme a Milan Kundera, l’onore di vedere alcuni dei propri lavori inclusi nella prestigiosa Bibliothèque de la Pléiade, si discosta dall’intento apologetico e prettamente nostalgico di La Varende o di Michel de Saint-Pierre per porsi nel solco di un’analisi più profonda, dalla quale diatriba politica e la riabilitazione vengono escluse in favore di un sottile monito esistenzialista. È quest’ultimo il reale gioiello, l’arcano celato nella narrazione cronachistica di d’Ormesson, ciò che la rende un commosso epicedio del passato, senza mai appagarsi delle sterili blandizie dell’elegia, come scriveva il curatore dell’edizione italiana Giovanni Bogliolo.
Jean d’Ormesson narra le vicende di famiglia della noblesse d’épée, attraverso gli occhi lucidi ma distaccati di uno dei suoi membri, nel corso delle tragedie del secolo breve, dalla Grande Guerra alla contestazione del ’68. Non è insolito che romanzi e racconti siano incentrati sulla storia di famiglie appartenenti all’aristocrazia, sia per l’alone di potere e, in parte, sacralità storica che le circonda, fascino dal quale pochi sono realmente immuni, sia per la particolare individualità di colui che narra: d’Ormesson, ad esempio, è un aristocratico non solamente per lo stile, ma anche per l’ascendenza. Tuttavia non credo si possa fare a meno di notare che l’interesse che circonda la storia di famiglia, a maggior ragione se di una famiglia patrizia, sia dovuto al fatto che queste ultime sono state, in larga parte, per secoli il modello delle classi sociali inferiori e dunque della società che viveva intorno ad esse, tesi non troppo lontana da quella sostenuta da Nicolas Gomez Davila in uno dei suoi escolios[2]. I ceti più bassi ne osservavano lo stile e le vicende, non per solo imitarli, goffamente o con successo, ma per essere partecipi di un unico ordine in cui ogni elemento aveva, almeno in teoria, il suo giusto o ingiusto ruolo. Dunque la narrazione del decadimento, dell’erosione di un’antica famiglia poté poi rappresentare allegoricamente l’eclissi di un’intera società, nonché il deperire esistenziale dell’uomo, tra il XIX e il XX secolo. È questo il caso de Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa o dei Buddenbrock di Thomas Mann. Il crollo di una classe, l’aristocrazia, la quale rappresentava un ordine quasi millenario, ha generato la rappresentazione di drammi e tragedie. Oggi non potrebbe più accadere nulla di tutto ciò: se i ceti più bassi o, meglio, meno abbienti, si conformano ancora ai gusti della classe dirigente, tuttavia quest’ultima non sarà mai degno oggetto di tragedia, ma solo di una scanzonata pantomima.
Au plaisir de Dieu. Una cronaca, una storia di famiglia e di Francia. Non ci è dato conoscere il nome della famiglia: i La Tour d’Auvergne? I Rohan? I Castries? Gli stessi Le Fèvre d’Ormesson? Forse nessuna di queste e tutte loro allo stesso tempo, cantate attraverso un archetipo. Tuttavia, appare immediatamente chiaro come le nom rappresenti tutto, quasi tutto per la Famiglia: il mondo cominciava con Èléazar [il primo avo di cui sarebbe riportato il nome]. Prima, tutto era oscuro poiché noi non eravamo ancora nati. […]. Per noi le cose e le persone non avevano senso se non in virtù del nome che portavano. Nei soli nomi c’erano già quelle idee di ordine e di gerarchia a cui eravamo legati. In fondo, con quest’affermazione, la Famiglia non si situa troppo lontana dalla disputa medioevale sugli universali e dalle implicazioni, sì teologiche, ma anche sociali e politiche che essa recava. Il nome, ogni nome reca in sé dunque uno status, ogni nome è segno della volontà di Dio sul mondo e quello della famiglia, con i doveri e i privilegi che ne derivavano, non fa eccezione. Ma quale può essere il destino del nome in un mondo che ha ripudiato Dio e il suo ordo? Beninteso, non che nei secoli la Famiglia fosse stata sempre fedele al Dio della Chiesa, eppure anche i peccati, veniali e carnali, di pensiero, d’atto ed intenzione, non erano che parte di un cosmo divino, offerti a maggior gloria di Dio. Alla famiglia non resta che scegliere l’isolamento e la stasi, conscia dell’ineluttabilità del tempo che avanza, della società che muta. Metafora della pietrificazione dell’esistente è il castello avito di Plessiz-lez-Vaudreil: ogni nazione, ogni famiglia, ogni individuo vivono su una mitologia che ne colora l’esistenza: la nostra mitologia era il castello. Si sarebbe potuto dire, forse, che era l’incarnazione del nome: li impregnava entrambi della medesima sacralità. Era il nome pietrificato. È infatti attorno al castello che ruota quasi ogni vicenda e poche sono le deviazioni: il tour del narratore e del cugino Claude alla scoperta della classicità, antica e rinascimentale, dell’amore e di una saggezza arcaica e popolare, in Italia ed in Grecia; qualche puntata a Parigi (…Di tanto in tanto, naturalmente, andavamo a Parigi. Nei confronti di Parigi eravamo quanto mai diffidenti e sprezzanti: un po’ l’inverso delle grosse ambizioni dei Julien Sorel e degli Eugène de Rastignac […] No, a Parigi non andavamo a cercare una gloria già acquisita e che ci aspettava a casa, ma un po’ di ballerine e qualche paia di stivali). Questo perché Parigi rappresenta la Francia contemporanea, la Francia della Repubblica. I rapporti con lei erano piuttosto ambigui. La Francia, naturalmente, era meno vecchia del nome che portavamo; era meno vecchia del re che l’aveva creata di sana pianta; ed era anche meno vecchia di Dio […] La Francia dei tempi moderni era come una vecchia amante alla quale si finisca con l’affezionarsi a furia di veemenze e sacrifici. Poiché il re non c’era più bisognava pur intendersi con lei.
Se fino alla Grande Guerra la Famiglia era potuta sopravvivere nella campagna in un mondo di semplicità cristallina, rimanendo immobile dinnanzi al tempo in corsa, il momento in cui essa tornerà a fare il suo ingresso nel mondo non è troppo lontano. L’impatto con la storia, con le contraddittorie ragioni del quotidiano aprono lentamente una breccia nelle mura del castello, permettendo che le idee (e, con esse, le ideologie), il denaro, la guerra e la politica vi penetrino… Un turbine travolgente al quale la vecchia quercia di storica maestà non potrà resistere a lungo.
![De Gaulle e Pétain](https://www.barbadillo.it/wp-content/uploads/2016/08/pétain_de_gaulle2-310x252.jpg)
Con la prepotenza dei grandi uomini ecco che Marx e Freud, Pétain e de Gaulle, la Wehrmacht e la France libre, compiono il loro ingresso, trionfale e mortale al tempo, nel parco e nelle gallerie di specchi a Plessiz-lez-Vaudreil, laddove un tempo erano benvenuti solo Chateaubriand (…con le sue follie, il suo rigore morale, le sue innumerevoli amanti, la sua inclinazione al suicidio e alle rovine, la sua irresistibile malinconia ricamata di ridicolo, la sua dedizione alle cause perse…), Bossuet, Joseph de Maistre, Maurras e pochi altri. La Famiglia, rappresentata dalla figura venerabile del Nonno, custode del passato, nella grande tragedia del Novecento non potrà scegliere di schierarsi in maniera unanime: i suoi conflitti sono ormai troppo distanti dai principi da essa onorati. La Famiglia, così come la Francia, della quale incarna le radici più antiche, viene dilaniata dalla contraddizione di un passato ancora troppo incardinato nella terra e nei cuori e di un presente troppo brutale nel suo imporsi sui tempi. Tuttavia essa mantiene la capacità di riaffermare la propria identità rifiutando la polarizzazione dei campi ideologici, troppo ontologicamente distante dal proprio credo. Ad esemplificare il conflitto, sono le figure di due fratelli, Claude e Philippe. Claude, combattente in Spagna coi repubblicani, anima gentile e religiosa, in cerca di una vocazione che lo guida dal misticismo al comunismo per poi riportarlo al centro, e Philippe, sciupafemmine monarchico e nazionalista, milite carlista durante la Guerra civile, ammiratore di Pétain, eppure entrambi con la France libre, contro l’invasione tedesca. La frattura si ricompone dinnanzi agli occhi austeri ma pur sempre comprensivi del Nonno, ma solamente perché i due uomini, Claude e Philippe, intimamente non appartengono al mondo ideologico della modernità. Essi scelgono per fede, l’uno nel tradizionalismo, l’altro nel dovere cavalleresco della giustizia verso i deboli. Del resto, ne I grandi cimiteri sotto la luna, Georges Bernanos, cattolico ed ex Camelot du roi, scriveva: oggi il posto di un Principe del sangue non è tra i suoi pari, tar i banchieri e gli industriali, bensì tra gli operai e i contadini[3]. Infine, anche gli occhi del Nonno, vecchio legittimista, si riempiranno di lacrime quando la Marsellaise verrà intonata alla Liberazione.
Se persino la guerra e la politica direttamente poco o nulla possono contro l’integrità della Famiglia, al contrario sono il denaro, il mutamento dei costumi, financo la morte, ad avere la meglio. Ed ecco che la Famiglia smette di creare e farsi storia. L’illusione di essere artefici del piacere di Dio, il motto della famiglia, ben attenti che l’Onnipotente non cambiasse casacca o perdesse la mano, si concluderà, con l’abbandono del castello nel vento della sera. Le pagine che d’Ormesson dedica all’ultima giornata trascorsa dalla Famiglia in quella casa ricca di secoli, sono tra le più toccanti: la ricerca di nuovi acquirenti, la cessione all’impersonalità di una società alberghiera, neppure più ad un uomo, per quanto nuovo ricco e parvenu; l’ultima messa nella cappella (…ricordavo quelle messe interminabili dell’infanzia, in quella stessa chiesa di Plessiz-lez-Vaudreil… Mi sembrava allora che il tempo non avrebbe mai smesso di scorrere e che bisognasse fare posto al futuro. Adesso avrei voluto lasciargli prendere fiato, vederlo finalmente rallentare la sua marcia e che quella messa serale non finisse mai. Invece finiva…) e l’ultimo pasto, l’addio ai domestici, ai contadini…
![Jean d'Ormesson all'epoca della scrittura del romanzo](https://www.barbadillo.it/wp-content/uploads/2016/08/jpg_241x347_d_ormesson_Figaro1.jpg)
Sottomessi come eravamo al piacere di Dio, facevamo una scelta nella sua eternità: preferivamo ciò che aveva già creato a ciò che avrebbe creato in seguito. Mio Dio, mio Dio, perché hai un tempo che cancella il passato e lo respinge lontano nella immemore memoria degli uomini? […] Avremmo però dovuto comprendere che era una preghiera senza senso: perché amavamo il passato soltanto perché era passato. […] Avremmo dovuto invece ringraziare Dio anche di questo tempo che scorreva: perché da esso nasceva il passato e, nella nostra attenuata vitalità, nella nostra debolezza di fronte al mondo, era il passato che noi amavamo. E il nostro dramma di oggi era soltanto questo: dopo aver rinunciato all’avvenire e al presente, adesso ci allontanavamo dalla culla e dal rifugio, rinunciavamo al passato. È forse in queste parole che si racchiude l’arcano ultimo della narrazione. Politica, ideologia, apologia… ogni cosa perde di significato, resta solamente il nucleo umano e fragile di una famiglia (questa volta senza f maiuscola) dinnanzi al tempo, alla memoria che cade nell’oblio. Forse di una famiglia vissuta troppo a lungo, con troppi peccati e troppe virtù sulle spalle. Il tempo, ancor più che la morte, uccide e cancella le ultime vestigia di un passato che è tutto intimo, tutto personale, nonostante il tentativo di renderlo un monumento della storia. È questo il destino di ciascuno, d’ogni uomo e d’ogni famiglia nell’età odierna, nella quale il tempo non è più regolato dai battiti regolari e monotoni dell’orologio, bensì dallo scorrere veloce della sabbia nella clessidra. E, ricordiamo, la Morte personificata nello scheletro incappucciato, insieme alla falce reca la clessidra tra le sue dita ossute.
Lasciato il castello, la casa, la memoria, ogni cosa si dissolve lentamente… Il Nonno, Philippe, Claude… L’ultimo rampollo, Alain, nella sua utopia ai limiti della perversione, non è che il frutto legittimo di un ramoscello secco destinato al spegnersi nel fuoco. Non resta che l’ormai anziano narratore: curioso del futuro, fedele al passato, resto testimone, una specie di vedetta che guarda quello che succede. Molto spesso lo spettacolo non ha nulla di divertente. Ma mi diletta e mi piace. Tra le cose e gli uomini, con tenerezza e ironia, sono, cerco di essere, sotto le raffiche del vento e della storia, la sentinella del piacere di Dio.
[1] Jean d’Ormesson, Au plaisir de Dieu, Èditions Gallimard, 1974, traduzione italiana di G. Bogliolo, A Dio piacendo, Rizzoli Editore, Milano, 1975.
[2] Nicolas Gomez Davila, Escolios a un texto implicito I, traduzione italiana di L. Sessa, In margine a un testo implicito, a cura di F. Volpi, Edizioni Adelphi, Milano, 2001.
[3] Georges Bernanos, Les Grands Cimitières sous la lune, Plon, Parigi, 1938, traduzione italiana di G. Spagnoletti, I grandi cimiteri sotto la luna, Il Saggiatore, Milano, 1996.