Lo scrittore di origini calabresi Francesco Grisi (Vittorio Veneto, 1927 – Todi, 1999) amava la Puglia, in particolare la valle d’Itria e la barocca Martina Franca dove l’avvocato Franco Silvestri del Sindacato Libero Scrittori organizzava spesso convegni e incontri. In uno di questi incontri mi diede, in segno di amicizia, una sua poesia dedicata a Bari, che fu poi pubblicata sul n. 9 di settembre 1991 della rivista Tuttobari, di cui ero direttore responsabile. Ne riporto buona parte:
“Da un marino balcone ti intravedo, Bari.
Un velo sottile mi separa da te.
Il giorno scompare nel rosso tramonto.
E sei un fantasma che si intravede
in un giardino di rose crepuscolari.
Amo la tua indefinita forma così lontana.
Potresti trasformarti in un deserto o in cielo
dove gli angeli giocano con il santo Nicola
volando l’infinito con le ali colorate (…).
Il sogno è l’unico amore che resta eterno.
L’altro si perde nel quotidiano che brucia.”
Francesco Grisi disprezzava il conformismo che riteneva “il male oscuro degli intellettuali”, un malvezzo che c’è sempre stato, a destra come a sinistra. E poneva un interrogativo certamente retorico: “che cosa conta una cultura che non sia polemica con il potere?” Al poeta e critico letterario Pierfranco Bruni abbiamo posto alcune domande su questo scrittore immaginifico, profondo, scorrevole, che i giovani lettori dovrebbero assolutamente riscoprire
Puoi tracciarci un breve profilo dell’uomo?
Francesco Grisi è un tracciato nella mia vita. Con le sue parole e la sua ironia. Con il suo essere cristiano nolente o volente. Ma anche eretico lungo le strade di Prezzolini e Buonaiuti. Ma il suo raccontare trovava sempre un punto di riferimento sia nei monaci del deserto sia nella figura del gigante San Francesco di Paola. Nei suoi romanzi tutto questo è scritto. Noi siamo nella inquieta solitudine della ricerca. È stato un maestro, nella sua coerenza, per come ha testimoniato, per come ha vissuto, per come ha amato.
… e dello scrittore? Grisi può considerarsi un autore di spicco della cultura mediterranea?
Certamente sì. È uno scrittore mediterraneo sia sul piano dell’uso dei linguaggi sia nelle atmosfere che si vivono nelle componenti narrative. C’è da dire che dal mare di Pitagora, dalla Magna Grecia, sino ai simboli che il mito Greco ha tramandato le linee restano quelle di una memoria sommersa che si fa nostalgia. Una profonda nostalgia che caratterizza tutta la sua opera. Soprattutto i suoi tre romanzi (A Futura memoria del 1986, Newton Compton, romanzo con il quale è stato finalista al Premio Strega, Maria e il vecchio del 1991 e La poltrona nel Tevere del 1993, entrambi pubblicati da Rusconi) si legano al tema della memoria, che non è da intendersi in termini di problematicità storica o di realismo magico, ma di prevalente senso del misterioso e della pagina simbolica.
Tu hai dedicato a Grisi un libro ed hai costituito un centro studi e ricerche a lui dedicato. Perché lo consideri un maestro?
Grisi non ha mai privilegiato gli ambienti, la duplicazione del reale, la descrizione delle cronache. Nei suoi scritti, sia essi narrativi e poetici che saggistici, c’è sempre la dimensione del simbolo, come già si diceva. “La esperienza del sacro – scrive Francesco Grisi in Scrittori cristiani (volenti o nolenti) – descrive e ordina, distingue e non cede ai compromessi. La concretezza del sacro accetta e ama la tradizione, rifiutando la novità del conformismo e lavora per il ‘nuovo’ che il tempo richiede dalla nostra passione”. Il tempo costituisce non solo un “attraversamento” esistenziale ma è un architrave che regge le colonne di quel sentire mito – poetico che, in Grisi, si stabilizza nel sentimento del misterioso e del sogno. Anche quando la storia sembra prendere il sopravvento (si pensi al saggio su Giuseppe Mazzini, Rusconi 1995 o alla Storia dei Carabinieri, Piemme 1996) il narratore si libera di alcuni schemi analitici per raccontare con il fascino di un linguaggio che coinvolge sul piano emotivo. Emozione. E’ proprio il termine che si adatta a quei testi che esulano dal campo narrativo, ma che non rientrano neppure in quello strettamente scientifico. E’ dunque un maestro.
Cosa è rimasto della sua lezione?
Grisi sosteneva, in fondo, di scrivere sempre un diario. D’altronde i suoi libri sono su questa linea. A cominciare da quei libri di racconti pubblicati dall’editore Pellegrini. Da Il mantello di Faust (1981) in poi. Sono questi testi di racconti che stanno alla base dei romanzi citati prima. Grisi “giocava”, letterariamente, ad incastro. Seguiva una sua poetica e nel corso della scrittura elaborava sempre nuovi modelli.
Qual è, secondo te, il suo romanzo più bello, magari quello che consiglieresti ai giovani?
I suoi scritti su San Francesco d’Assisi e San Francesco di Paola, su Gioachino da Fiore, su Renan, su Giovanni Paolo II, su i Vangeli (le Lettere a Marco, a Giovanni, a Luca, a Matteo) sono una emblematica offerta testamentaria. Il suo credere che la vita non è una linea retta, ma si legge come metafora del cerchio non porta soltanto un richiamo vichiano, ma delinea, appunto, le avventure che i personaggi si trovano a vivere all’interno dei contesti narranti.
E il suo libro da tenere sul comodino?
Un amore edito da Pellegrini nel 1992 o Affettuoso pensiero edito da Thule nel 1994 o Dopo tutto un bel gioco questa vita edito da Serarcangeli nel 1996. Le visioni oniriche e le risultanze letterarie sono un mosaico i cui tasselli stanno tra la prosa e la poesia. Si tratta di una forma di scrittura diversa ma i contenuti e le questioni esistenziali che emergono hanno sempre una loro omogeneità. Alla base ci sono quei sostrati culturali di cui si parlava prima. Grisi ha, tra l’altro, raccontato, nei suoi romanzi, molte città. Le ha descritte, le ha dipinte e non solo con le parole (ma, tra l’altro, attraverso le forme perché Grisi dipingeva anche ed ha lasciato molti suoi quadri con una vivacità di toni), le ha vissute.
@barbadilloit