Ci sono molte tipologie di libri. Ci sono quelli che non si leggono ma prendono la polvere sugli scaffali; quelli che si leggono sempre volentieri per passare un pomeriggio e che non ti lasciano un granché se non un blando sentimento di piacere; quelli che si divorano e ti lasciano una sensazione strana, che ti stampano un sorriso amaro sul viso, pagine che immediatamente per giochi perversi del cervello rimandano a tempi passati, così vicini e così lontani, facce a cui non pensi da tanto, voci che non senti da anni, lacrime che pensavi di non versare più. Sono libri pericolosi questi, viene da sé, perché superato il limitare della giovinezza certi cassetti sarebbe meglio lasciarli chiusi per non ritrovare le fotografie di vecchie stagioni che sono coltellate. Appartiene a questa categoria l’ultima fatica di Riccardo Paradisi, “Un’estate invincibile” (Ed. Bietti) che è riuscito a tenere insieme nero su bianco, con una prosa magistrale, una riflessione sulla più abusata delle stagioni della vita umana, la gioventù appunto, senza mai cadere nella retorica e nel ridicolo. Volendolo attualizzare ci sarebbe da interrogarsi sulla necessità di scrivere un libro del genere negli anni italici consegnati politicamente a Matteo Renzi e a quella cosa chiamata renzismo, un combinato disposto fatto di hashtag e iPhone, decreti legge e talk show, scandali bancari da ladri di polli e postideologia un tot a chilo maturata nella remota provincia toscana… Epperò sarebbe fare un torto all’autore, svilendo invece la natura aulica ed alta della riflessione, la dose importante e sapiente dei riferimenti, l’analisi introspettiva ed estrospettiva di una generazione – la sua ma non solo – che appunto nell’Estate invincibile trova il suo degno albergo.
Tra Eliade e Lou Reed, gli anni Ottanta e Brasillach, Paradisi scava a fondo senza mai annoiare e anzi costringendo il lettore a fare i conti con la propria di gioventù. Tanto che questo pamphlet può idealmente essere ampliato da chiunque coi propri rimandi: canzoni, libri, film, suggestioni, senza per questo essere in difetto, senza per questo rischiare di essere smentito. Ognuno di noi ha avuto la propria Estate, ed ognuno di noi si è creduto invincibile.
Personalmente sono abbastanza in imbarazzo a doverne scrivere, perché l’anagrafe mi rende non abbastanza giovane eppure non abbastanza vecchio per fare le pulci o tromboneggiare sul tempo che fu. Il senso dell’Estate invincibile di Paradisi è quello di un tempo interiore, un tempo dello Spirito, che nulla ha a che vedere con quello che i Greci antichi facevano coincidere col krònos… Si resta giovani, si vive al sole della propria estate fintanto che qualcosa dentro non muore. C’è un passo dei Sette Colori di Robert Brasillach appunto, un capolavoro sulla giovinezza e sull’amore, dove l’autore chiosa: “Ma che importa l’avvenire alla sua età? È così vasto, pieno di promesse così belle…”, non curarsi del domani, l’illusione dell’onnipotenza…
“Ma di illusioni non ne abbiamo avute, o forse sì ma nemmeno ricordo, tutte parole che si son perdute con la realtà incontrata ogni giorno… Chi glielo dice a chi è giovane adesso di quante volte si possa sbagliare, fino al disgusto di ricominciare perché ogni volta è poi sempre lo stesso…”, canta un impietoso Francesco Guccini in una delle sue ballate più belle e meno conosciute, “Canzone per Piero”, ricordando appunto l’amicizia e le scorribande di decenni prima. Roberto Vecchioni, quasi agli esordi, in “Canzone per Sergio” affida alla policromia dello sguardo di Alessandro il Macedone quella dicotomia tra nostalgia e voglia di andare avanti, estate ed autunno, che ognuno di noi è costretto almeno una volta a sperimentare sulla propria pelle:
“E il tempo mischia bene le bibite, gli imperativi e quel che mando giù… Qualcuno vede ancora negli occhi miei quel che gli specchi non rifletton più (…) O Sergio non ho tempo di scriverti ma un giorno o l’altro mi rincontrerai! Ci appoggeremo sui gomiti quando il sole viene giù, mi accadrà di sorridere come non speravo più: e l’occhio azzurro avrà un momento uguale all’occhio blu”.
Riccardo Paradisi non fa della faciloneria riflettendo sulle aspirazioni della gioventù, ovvero dell’età che propriamente o meno è definita da molti la più bella e irripetibile, ma proprio in quell’attributo, “invincibile”, sembra quasi voler sancire una sorta di eternità ideale che per molti, probabilmente più fortunati, può essere differita all’infinito.
Sarà che ogni volta che ci penso, a quell’età, mi torna in mente una poesia di Eugenio Montale, “Fine dell’infanzia”, che gioca con la contrapposizione tra le nuvole che non erano “cifre o sigle/ma le belle sorelle che si guardano viaggiare” fino alla chiusa, quando il diventare adulti presenta il conto, spazzando via ogni immaginifica illusione: “Volava la bella età come i barchetti sul filo del mare a vele colme. Certo guardammo muti nell’attesa del minuto violento; poi nella finta calma sopra l’acque scavate dové mettersi un vento”.
Potrei andare avanti con ricordi di film ed altre canzoni, libri e chissà che altro, non esaurendo minimamente il senso di ciò che invece Riccardo Paradisi ha avuto il coraggio di affrontare e analizzare senza remore né timore.
Dicevo all’inizio che ci sono libri pericolosi. Sono quei libri che costringono chi li legge a fare i conti col passato e quindi con sé stessi. Sono anche quei libri che ti costringono a parlare in parte d’altro, proprio per non ricordare troppo la fotografia scattata quel giorno di settembre durante una gita in collina, o la foto di gruppo con gli amici di allora durante le vacanze all’Isola d’Elba, quando davvero l’estate sembrava non dover finire mai, o ancora il 10 agosto a guardare le stelle cadenti sul prato in periferia e i baci e le corse in treno, e la sabbia infuocata, e il mare della Versilia… Ci sono libri pericolosi però che oltre ad essere belli o brutti, ti dici pure: “Perché non l’ho scritto io?”. Ecco: “Un’estate invincibile”, maledizione, perché non l’ho scritto io? Buona lettura.
*“Un’estate invincibile. Sulla Giovinezza” di Riccardo Paradisi, prefazione di Stenio Solinas (pp. 224, Ed. Bietti)