Eccoci. Siamo al terzo appuntamento con le proposte stregate di Barbadillo, a firma di Daniela Sessa… Buona lettura!
E-sa-spe-ran-te. Esagerato. Onanistico. Virtuosistico. Narcisista. Sovrabbondante. Eccessivo. Afoso. Vorticoso. Potrebbe continuare all’infinito il catalogo delle iperboli per Giordano Meacci e il suo “Il cinghiale che uccise Liberty Valance”(ed. Minimum fax, 2016, finalista Premio Strega). Un esempio di iperbole?
“E in questo esatto momento di epifania, nell’istante prezioso in cui le tessere di un qualsiasi mosaique vivant si ricompongono per dare vita ad universi plausibili e colorati, la notte di Corsignano esplode in una summa atheologica e ferina di grida e rantoli e suoni e grugniti, quasi un fulmine sonoro si fosse raggrinzito nello strato epidermico del buio, appiccicandosi al nero concavo dell’estate come la crosticina luminosa di un graffio siderale, le luci sperse che si prefigurano da sùbito in cicatrici”.
Così via….. e non è nemmeno il brano più accartocciato del romanzo. Ci sono anche le pagine del garbuglio delle onomatopee, quando Meacci lascia soli e liberi nello spazio narrativo i cinghiali
“ ‹‹ Qwarr mcrhrssrrrr? ››, fa Feenz-sstnér, preoccupata dai grugniti ansiosi di Apperbohr. ‹‹Mcrhrssr grmmsslr gwrfrhhtfowkhsseaw? ››, chiede Neekw-jjam a Chraww-nisst”
Tanto liberi che l’ardimentoso lettore prima rischia di non saper isolare i fonemi della grammatica italiana, poi considerandoli resti archeologico-linguistici di non subirne più il fascino, infine farsi prendere addirittura dal piacere del nonsense fonico.
Saggiata la prosa della fatica letteraria di Giordano Meacci, si entri adesso nella storia. Che avviene a Corsignano, paese fantastico immerso nei boschi tra l’Umbria e la Toscana. Qui abita una comunità di otto “genealogie minime parziali” collegate da tradimenti, amicizie, odi, parentele, sesso, desideri, passioni, sconfitte. Una comunità chiusa, autoreferenziale, apatica: “Il mio Macondo”, la definisce Meacci. A Corsignano domina il fiabesco reale di Marquez sebbene vi risuoni l’eco del primitivismo contadino di Federigo Tozzi oppure (per restare dentro il nucleo d’ispirazione del romanzo) delle comunità Amish al netto però di rifiuto della vanità e della modernità. Meglio ancora delle città del West dove la legge è quella del saloon. Nei boschi intorno Corsignano vive una comunità di cinghiali rvmlh e di cinghialesse rvmflh (non sfugga a chi legge lo scarto segnico della “f”!) tra cui Apperbohr, il quale, forte di questo nome da battaglia trans-umana, decide di cambiare il destino della sua comunità: non succulenta carne per braci e sugo bensì invasori e conquistatori di spazi, sentimenti, comportamenti umani. In pratica un assalto alla diligenza degli “Alti sulle Zampe”, un agguato agli umani con tanto di “grida e rantoli e suoni e grugniti”.
Un agguato alla Liberty Valance, il bandito di John Ford il cui penultimo film western, così divergente nello sguardo sulle certezze degli eroi impolverati della frontiera americana, è metafora del passaggio dal wild al civil, della necessità di ripristinare un ordine sociale, che sia morale e giuridico assieme. La metafora è assunta da Giordano Meacci per ridisegnare i confini città- campagna a Corsignano, lì dove l’utopia etica dà asilo a uomini e bestie assai simili. Simili talvolta nei dettagli fisici (Andrea è affetto da eterocromia come Apperbohr) ma soprattutto nei sentimenti: il dolore, lo shock della morte, l’amore.
“…se si potesse dire amore in cinghialese: se si potesse dire amore in qualsiasi lingua”
La storia è questa. Lecito è obiettare che uomini e animali convivono da Esòpo ad Orwell e quindi nulla di nuovo nel cielo della letteratura. Il libro è anche un’enciclopedia bulimica di citazioni e sfoggi culturali. E anche qui l’obiezione che di enciclopedie le biblioteche sono piene dalla Summa Codicis in lingua provenzale agli scritti di Eco.
Allora l’esagerazione dove sta? Sta nell’essere “Il cinghiale che uccise Liberty Valance” (ecco, i codici ed i semiologi) un trattato di linguistica con contaminazioni storiche e fiabesche, il tentativo ridondate di Giordano Meacci di baroccheggiare con il concetto per cui l’èthos (nel senso di etica e di comportamento, dunque ad uso e consumo di uomini e bestie) segue il lògos. La parola.
“Apperbohr ha capito che quando le parole non ci sono bisogna trovarle, masticarle come se fossero ossa di cervo da spolpare”
I nomi, fondamenta di tutte le identità, e la loro carovana desaussurriana.
“…a dimostrazione che non ci si muove nella vita a smanacciate onnicomprensive di Langue, ma per gesti continui e inclassificabili e mutevoli (e cagionevoli) di Parole”
Non un romanzo “Il cinghiale che uccise Liberty Valance”, ma una grammatica. Per crederci si abbia la tenacia di arrivare alle pagine finali del libro di Giordano Meacci. Si trova il “Prontuario Cinghialese” con un ricco ed autorevole apparato di fonomorfosintassi e lessico che racchiude il senso e lo scopo del libro. Tenacia, dunque. Pazienza, pure. E alla fine il piacere della lettura. Quello che coincide con il funambolismo della lingua che si fa pensiero, del pensiero che si fa cultura.
Cultura, che non è una brutta parola, anzi dovrebbe essere riformulata in una nuova luce. A proposito di luce, in cinghialese luce si dice Fowkhsseaw: chissà se l’umano lettore proverà a pronunciarla…