Martin Heidegger conosceva e apprezzava l’opera di Julius Evola, come dimostrano alcune note del filosofo tedesco, rimaste finora inedite, pubblicate lo scorso 30 dicembre dall’autorevole Frankfurter allgemeine Zeitung. Dopo Ernst Jünger, Gottfried Benn, Mircea Eliade e tanti altri protagonisti della Rivoluzione Conservatrice, anche l’autore di Essere e Tempo sembra aver subito il fascino e l’influenza del controverso pensatore italiano, che si conferma, così, un indiscutibile, per quanto discusso, protagonista della cultura europea del Novecento. Un aiuto a conoscere meglio la vita e l’opera di Evola ci viene da un volume appena pubblicato dall’editore cattolico Cantagalli, La folgore di Apollo (pagg. 356 € 20), di Roberto Melchionda, che aveva già firmato un altro importante studio sul teorico dell’individuo assoluto, Il volto di Dioniso. Giovanissimo reduce della R.S.I., Melchionda conobbe personalmente Evola nel 1951, al processo contro i FAR, nel quale vennero coinvolti altri futuri giornalisti e intellettuali del calibro di Enzo Erra, Fausto Gianfranceschi ed Egidio Sterpa. Da allora, pur seguendo una carriera professionale lontana dalla pubblicistica o dall’insegnamento, Melchionda continua ad esaminare e approfondire il pensiero evoliano da una prospettiva non accademica né erudita ma esistenziale; la condizione indispensabile per riuscire a capire Evola, infatti, è trovarne dentro di sé l’eco. Come questo sia possibile ce lo spiegano efficacemente gli scritti raccolti in questo libro, frutto di una meditazione durata tuta la vita. La filosofia di Evola, come sottolinea Marcello Veneziani nell’introduzione, è il filo rosso che lega tutte le fasi della sua vita, da quella artistica a quella magica, dalla sua attività di traduttore a quella di scrittore e studioso, che De Felice definì “mistico spengleriano”. Ad arricchire, e alleggerire, il libro c’è una ricca appendice epistolare, con il carteggio tra l’Autore e lo studioso cattolico Gian Franco Lami, e alcune lettere di Evola stesso a Melchionda, che danno un quadro del “filosofo proibito” molto lontano da quello algido che ci offrono i suoi libri: di sé dice che “è alieno di suscettibilità, e sempre pronto a considerare suggerimenti o giudizi”, invitando il suo interlocutore a “proporre o segnalare temi o argomenti” su cui scrivere.
Tra le persone citate nella corrispondenza figura anche Elémire Zolla, “venuto un paio di volte a trovarmi”, frequentazione che lo Zolla nascose accuratamente, nonostante le innegabili affinità di interessi coltivati e autori frequentati. Su Moravia, che Evola ha avuto occasione di seguire nel precedente periodo, “vi è un forte sospetto che la sua pornografia sia un mero prodotto di compensazione”, dato che “quando vedeva che una ragazza era pronta a far sul serio con lui, quasi aveva angoscia…”. E, infine, liquida “il gruppetto torinese custode geloso dell’ortodossia guénoniana”, che pubblicava la Rivista di Studi Tradizionali, come dei “giovani, sembra che uno sia il figlio di un personaggio della FIAT, ed è il finanziatore”, che di Guénon non sanno che attraverso i libri”. Già, perché l’erudizione, al pari dell’intelligenza e l’ingegno, possono essere dannosi: “quando la si usa male –conclude il Barone – è meglio non averla”, soprattutto “quando tutto si riduce a quella più o meno brillante stupidità intelligente di cui esistono esempi numerosissimi e perspicui”, e oggi che sembra essere molto più apprezzata e seguita di quanto non fosse esattamente mezzo secolo fa, quando Evola scrisse questa parole.
*Da Il Giornale
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