Il derviscio demente è l’immagine che resta dopo aver letto “La femmina nuda” di Elena Stancanelli (La Nave di Teseo, 2016, Finalista premio Strega). In quell’immagine maldestramente danzante si condensa la storia della protagonista Anna. Si provi ad osservare la danza dei dervisci: la veste candida rotea con grazia solenne poggiata sul perno del corpo, le mani sono coppe pronte ad accogliere l’opposizione di divino e terreno, una tensione mistica detta il ritmo dei gesti e delle musiche.
Un corpo che danza l’armonia divina è un corpo che si rende all’anima, è manifestazione fisica di essenza divina se…
Se il divino dimorasse ancora dentro la psiche, se ci fossero persino tracce di quella Kalokagathìa che faceva della bellezza del corpo bellezza dell’anima. Invece il derviscio non ha perno nel corpo, si disperde nello spazio: qui il derviscio è Anna.
Anna, che non sa arginare la sconfitta della sua coppia, avvolge su se stessa la mente al punto che il suo corpo, sempre più esile e flessibile comincia a roteare sgraziato e intermittente, un derviscio impazzito. Demente: la mente scivola via e resta il corpo con le proprie elementari esigenze. Non importa cosa accade, non importa chi siano Davide, Valentina, Cane e gli altri personaggi, né importa dove accade né quando accade.
“Tu credi di ragionare invece ti attorcigli. Ogni minuto ripensi la stessa cosa, o fai lo stesso gesto. Come un pesce rosso. Per ore, mesi, giorni. Sempre lì come un derviscio demente”
Nonostante la tensione agonistica che l’Anna narrante si ostina ad ingaggiare col suo lettore ossessionandolo di dettagli toponomastici virtuali o meno e richiamandolo all’ascolto delle sue di ossessioni, quello che lascia il romanzo è il rialzarsi sghembo di un corpo prima stramazzato. Un corpo nudo. Un corpo nudo di femmina. Mostrato senza un velo di pudore, il corpo della femmina Anna è un corpo che decide di non nutrirsi, che decide di riempirsi di succhi di frutta Xanax e alcool, un corpo che ora scatta all’inseguimento e che un momento dopo finisce a terra come un cencio slabbrato, un corpo astuto e ingenuo, carnefice e vittima, un corpo arreso, vendicativo, ferito, vincente. Un corpo grottesco alla Bachtin, un corpo che esiste nella deiezione degli umori del cuore che si fanno deiezioni verbali. Antilirico il corpo, antilirico il linguaggio.
Anna è un baro per il lettore, un “sorcio” per i suoi compagni di narrazione. Un sorcio perché si alimenta degli escrementi di un rapporto finito, perché si mostra e si nasconde mentre rode ogni promessa di malinconia. E’ un baro perché mettendo il lettore anzi la lettrice sulle tracce dell’amore ai tempi dei Social la fa specchiare dentro i luoghi comuni delle vite ecolaliche e intanto le suggerisce il rischio di essere Anna. Quel corpo smagrito e aggressivo, goffamente sadico e spietatamente masochista è la possibilità che ogni donna ha di essere Anna. Quel corpo è una possibilità che appartiene alla femmina. E’ quella possibilità di desacralizzare la seduzione in persecuzione, la sensualità in una fica da scopare. Quel corpo è la possibilità di una donna abbandonata, rifiutata. Quel corpo, raccontato con la forza di un archetipo grazie ad una prosa scabra ed elegantemente sentenziosa, è un corpo abbandonato.
E allora si interroghi Fedra di Seneca: “Chiamami sorella, Ippolito, oppure schiava. Schiava è meglio. […] Tienlo tu, lo scettro. È giusto che tu comandi, che io obbedisca” o della poetessa Cvetaeva “Ippolito! Ippolito! Ti imploro/ Per Ippolito….deliro!” .
Resistere all’abbandono invocando il potere. Farsi schiava, ripristinare la gerarchia della passione, della seduzione. E poi di fronte al rifiuto esplodere, impazzire. Maltrattare il corpo perché sente, maltrattare il corpo per fare dell’amore ricatto, maltrattare il corpo per fare dell’amore martirio. Fedra realizza l’archetipo del sentimento dell’abbandono: la prima ad essere lacerata nelle carni infuocate di desiderio è proprio la regina cretese, lo scempio di Ippolito va da sé. L’Anna di Elena Stancanelli rivendica inconsapevolmente quell’archetipo.
Poco conta se a Fedra, rifiutata da un desiderio mai tentato, Anna non potrebbe ripetere quella frase che ad un certo punto ripete a se stessa “Le persone si lasciano, le storie finiscono”: Fedra non ha subito le menzogne, il tradimento, l’umiliazione, il dolore di sapere il corpo dell’uomo suo dentro il corpo di un’altra. Anna sì. Anna ad un certo punto ha visto Davide andare via. Anna si è separata e ha visto il suo di corpo “smembrato, braccia e gambe, fegato e polmoni che si staccavano gli uni dagli altri”. E ha dovuto ricostruirlo, il suo povero corpo, salvarlo dalla follia, dall’I-Phone, dalla Rete, da quella necessità di controllare l’altro che l’aveva imprigionata e soffocata, resa fastidiosa. Prima di tutto a se stessa. La faretra di Fedra e il cellulare di Anna.
Anna e Davide sono assenza d’amore. Anna e Davide sono rifiuto e abbandono, Fedra e Ippolito lo erano. Non c’è amore in “La femmina nuda” ma quel gelo che non è “la cosa scema di stare sdraiati su una lastra di ghiaccio crepata a forma di stella”, è il gelo di sapere che Anna è dentro di noi, come possibilità di disperazione. “La femmina nuda” si offre dunque come specchio. E noi fragili Dorian dalle curve graziose siamo spinte a guardare il precipizio di non saper accettare che “Le persone si lasciano, le storie finiscono”. Il senso di questa storia sta nel negare il piano del cuore – “ Ti amo da impazzire. Non significa un cazzo”- e sbattere sul volto della coscienza dilacerata il corpo e la razionalità. Anna, col suo bel nome palindromo, viaggia in andata e ritorno col corpo forse senza rendersi conto che il capriccio di Fedra è il suo giro demente di danza.