La questione dell’identità (nazionale, culturale, ecc.) ha un ruolo centrale nel dibattito sull’immigrazione. A questo proposito, si impongono di primo acchito due osservazioni.La prima consiste nell’osservare che, se si parla molto dell’identità della popolazione d’accoglienza, si parla in generale molto meno di quella degli immigrati stessi, che sembra tuttavia, e di gran lunga, la più minacciata dal fatto stesso dell’immigrazione. In quanto minoranza, gli immigrati subiscono infatti direttamente la pressione dei modi di vita della maggioranza. Votata alla cancellazione, o al contrario esacerbata in modo provocatorio, la loro identità il più delle volte non sopravvive che in maniera negativa (o reattiva) in ragione dell’ostilità dell’ambiente d’accoglienza, o addirittura del supersfruttamento capitalista che si esercita su lavoratori separati dalle loro naturali strutture di difesa e protezione. Si è d’altra parte colpiti nel vedere come la problematica dell’identità sia posta, in certi ambienti, solo in correlazione con l’immigrazione. La principale, se non la sola, “minaccia” che peserebbe sull’identità nazionale francese sarebbe rappresentata dagli immigrati. Ciò vuol dire non tenere conto dei fattori che, ovunque nel mondo, nei paesi che contano una forte manodopera straniera come in quelli che non ne comportano alcuna, inducono una disgregazione delle identità collettive: primato del consumo, occidentalizzazione dei costumi, omogeneizzazione mediatica, generalizzazione dell’assiomatica dell’interesse ecc. È fin troppo facile, in questa percezione delle cose, ricadere nella logica del capro espiatorio. Tuttavia, non è certamente colpa degli immigrati se i francesi non sono apparentemente più capaci di produrre un proprio modo di vita, né di dare al mondo lo spettacolo di una maniera originale di pensare ed esistere. Nemmeno è colpa degli immigrati se il legame sociale si disfa ovunque si diffonde l’individualismo liberale, se la dittatura del privato fa svanire gli spazi pubblici che potrebbero costituire il crogiolo del rinnovamento di una cittadinanza attiva, né se gli individui, che ormai vivono nell’ideologia della merce, diventano sempre più estranei alla loro natura. Non è colpa degli immigrati se i francesi formano sempre meno un popolo, se la nazione diventa un fantasma, se l’economia si mondializza e se gli individui non vogliono più comportarsi come attori della propria esistenza, ma sempre più accettano che si decida al loro posto a partire da valori e norme che essi non contribuiscono più a formare. Non sono gli immigrati, infine, che colonizzano l’immaginario collettivo e impongono alla radio e alla televisione suoni, immagini, preoccupazioni e modelli “venuti da altrove”. Se c’è “mondialismo”, diciamo allora con onestà che, fino a prova contraria, è dall’altra parte dell’Atlantico che proviene, e non dall’altra parte del Mediterraneo. E aggiungiamo che il piccolo negoziante arabo di generi alimentari contribuisce a conservare, in modo conviviale, l’identità francese più del parco divertimenti americanomorfo o del “centro commerciale” con capitali francesi. Le vere cause della disgregazione dell’identità francese sono in effetti le stesse di quelle che spiegano l’erosione di tutte le altre identità: esaurimento del modello dello Stato-nazione, disagio di tutte le istituzioni tradizionali, rottura del contratto di cittadinanza, crisi della rappresentazione, adozione mimetica del modello americano ecc. L’ossessione del consumo, il culto del “successo” materiale e finanziario, la scomparsa delle idee di bene comune e di solidarietà, la dissociazione dell’avvenire individuale e del destino collettivo, lo sviluppo delle tecniche, il progresso delle esportazioni di capitali, l’alienazione dell’indipendenza economica, industriale e mediatica, hanno da soli distrutto maggiormente l’“omogeneità” della popolazione francese di quanto abbiano fatto finora degli immigrati che non sono altro che gli ultimi a subirne le conseguenze. «La nostra identità», sottolinea Claude Imbert, «è molto più colpita dal crollo del civismo, più alterata dall’amalgama culturale internazionale dei mezzi di comunicazione, più logorata dall’impoverimento della lingua e dei concetti, più sconvolta soprattutto dalla degradazione di uno Stato un tempo centralizzato, potente e prescrittore che fondava in noi questa famosa “identità”»1. Insomma, se l’identità francese (ed europea) si disfa, è anzitutto a causa di un vasto movimento di omogeneizzazione tecnico-economica del mondo di cui l’imperialismo transnazionale o americanocentrico costituisce il vettore principale, e che generalizza ovunque il non senso, ossia un sentimento di assurdità della vita che distrugge i legami organici, dissolve la socialità naturale e rende ogni giorno gli uomini più estranei gli uni agli altri. L’immigrazione gioca piuttosto, da questo punto di vista, un ruolo di rivelatore. È lo specchio che dovrebbe permettere ai francesi di prendere pienamente coscienza dello stato di crisi larvata nel quale si trovano, stato di crisi di cui l’immigrazione, più che la causa, rappresenta una conseguenza tra le altre. Una identità si sente tanto più minacciata, in quanto si sa già vulnerabile, incerta, e, per farla breve, sconfitta. Per questa ragione non è più capace di fare affidamento su un apporto straniero per includerlo nel proprio. In questo senso, non è tanto perché in Francia ci siano degli immigrati che l’identità francese è minacciata; piuttosto, è perché questa identità è già largamente demolita che la Francia non è più capace di fronteggiare il problema dell’immigrazione, se non dandosi all’angelismo o predicando l’esclusione. Xenofobi e “cosmopoliti” si ritrovano d’altronde, alla fin fine, d’accordo nel credere che esiste una relazione inversamente proporzionale tra l’affermazione dell’identità nazionale e l’integrazione degli immigrati. I primi credono che una Francia più preoccupata o più cosciente della sua identità si sbarazzerà spontaneamente degli immigrati. I secondi pensano che il modo migliore per facilitare l’inserimento degli immigrati consiste nel favorire la dissoluzione dell’identità nazionale. Le conclusioni sono opposte, ma la premessa è identica. Gli uni e gli altri si sbagliano. Non è l’affermazione dell’identità francese ad ostacolare l’integrazione degli immigrati, ma al contrario la sua cancellazione. L’immigrazione costituisce un problema perché l’identità francese è incerta. Ed è al contrario grazie a un’identità nazionale ritrovata che si risolveranno le difficoltà legate all’accoglienza e all’inserimento dei nuovi venuti. Si vede in tal modo quanto sia insensato credere che basterebbe invertire i flussi migratori per “uscire dalla decadenza”. La decadenza ha ben altre cause, e se in Francia non ci fosse un solo immigrato, i francesi si ritroverebbero comunque di fronte alle stesse difficoltà, ma stavolta senza capro espiatorio. Assillandosi sul problema dell’immigrazione, rendendo gli immigrati responsabili di tutto ciò che non va, si annullano nello stesso tempo una quantità di altre cause e di altre responsabilità. Si opera, in altri termini, un prodigioso dirottamento d’attenzione. Sarebbe interessante sapere a vantaggio di chi. Ma bisogna interrogarsi più profondamente sulla nozione di identità. Porre la questione dell’identità francese non consiste fondamentalmente nel chiedersi chi è francese (la risposta è relativamente semplice), ma piuttosto nel chiedersi cosa è francese. A questa domanda molto più essenziale, i cantori dell’“identità francese” si limitano in generale a rispondere con reminiscenze commemorative o evocazioni di “grandi personaggi” ritenuti più o meno fondatori (Clodoveo, Ugo Capeto, i crociati, Carlo Martello o Giovanna d’Arco), inculcati nell’immaginario nazionale da una storiografia convenzionale e devota2. Ora, questo piccolo catechismo di una sorta di religione della Francia (dove la “Francia eterna”, sempre identica a se stessa, è da sempre pronta a ergersi contro i “barbari”, non definendosi il francese, al limite, altro che come colui che non è straniero, senza più alcuna caratteristica positiva che la sua non-inclusione nell’universo degli altri) ha rapporti abbastanza lontani con la storia di un popolo che in fondo non ha di specifico che il modo in cui ha sempre saputo fronteggiare le sue contraddizioni. In effetti, non è strumentalizzato che per restituire una continuità nazionale sbarazzata di ogni contraddizione in un’ottica manichea dove la mondializzazione (l’“anti-Francia”) è puramente e semplicemente interpretata come “complotto”. I riferimenti storici sono allora situati di primo acchito in una prospettiva antistorica, prospettiva quasi essenzialista che tende meno a dire la storia che a descrivere un “essere” che sarebbe sempre lo Stesso, che si definirebbe solo mediante la resistenza all’alterità o il rifiuto dell’Altro.
L’identitario è così invincibilmente ricondotto all’identico, alla semplice replica di un “eterno ieri”, di un passato glorificato dall’idealizzazione, entità preconcetta che bisognerebbe solo conservare e trasmettere come una sostanza sacra. Parallelamente, il sentimento nazionale è staccato dal contesto storico (l’emergere della modernità) che ha determinato la sua apparizione. La storia diventa dunque non-rottura, mentre non c’è storia possibile senza rottura. Essa diventa semplice durata che permette di esorcizzare la differenza, mentre la durata è per definizione dissomiglianza, differenza tra sé e se stesso, perpetua inclusione di nuove differenze. In breve, ci si serve della storia per proclamarne la chiusura, invece di trovarvi un incoraggiamento a lasciarla proseguire. L’identità non è tuttavia mai unidimensionale. Non soltanto associa cerchi di appartenenza multipli, ma combina fattori di permanenza e fattori di cambiamento, mutazioni endogene e rapporti esterni. L’identità di un popolo o di una nazione non è nemmeno soltanto la soma della sua storia, dei suoi costumi e dei suoi caratteri dominanti.Come scrive Philippe Forget, «un paese può apparire, di primo acchito, come un insieme di caratteri determinati da usi e costumi, fattori etnici, geografici, linguistici, demografici, ecc. Tuttavia, se questi fattori possono apparentemente descrivere l’immagine o la realtà sociale di un popolo, non rendono conto di ciò che è l’identità di un popolo come presenza originaria e perenne. Dunque, è in termini di apertura del senso che bisogna pensare le fondazioni dell’identità, il senso non essendo altro che il luogo costitutivo di un uomo o di una popolazione e del loro mondo»3. Questa presenza, che significa apertura di uno spazio e di un tempo, prosegue Philippe Forget, «non deve rinviare a una concezione sostanzialista dell’identità, ma a una comprensione dell’essere come gioco di differenziazione. Non si tratta di comprendere l’identità come un contenuto immutabile e fisso, suscettibile di essere codificato e oggetto di canoni… Contrariamente a una concezione conservatrice della tradizione che la concepisce come una somma di fattori immutabili e trans-storici, la tradizione, o piuttosto la tradizionalità, deve essere qui intesa come una trama di differenze che si rinnovano e rigenerano nell’humus di un patrimonio costituito da un aggregato di esperienze passate, messo in gioco nel proprio superamento. In questo senso, la difesa non può e non deve essere legata alla protezione di modi di esistere postulati come intangibili, ma deve piuttosto sforzarsi di proteggere le forze di metamorfosi di una società a partire da se stessa. La mera ripetizione di un sito o l’azione di ‘abitare’ secondo l’uso di un altro conducono al deperimento e all’estinzione dell’identità collettiva»4. Non più della cultura, l’identità non è un’essenza che il linguaggio potrebbe irrigidire o reificare. Essa non è determinante che in modo dinamico e non si può comprenderla che tenendo conto delle interazioni (o retro-determinazioni), delle scelte come dei rifiuti personali di identificazione e delle strategie di identificazione che le sottendono. Anche se all’inizio è data, è indissociabile dall’uso che se ne fa, o che si rifiuta di farne, in un contesto culturale e sociale particolare, ossia nel contesto di una relazione con gli altri. L’identità è in tal modo sempre riflessiva. Essa implica, in una prospettiva fenomenologica, di non disgiungere mai costituzione di sé e costituzione dell’altro. Il soggetto dell’identità collettiva non è un “io” o un “noi”, entità naturale, costituita una volta per tutte, specchio opaco dove niente di nuovo potrebbe più venire a riflettersi, ma un “sé” che richiama incessantemente nuovi riflessi. La distinzione che si impone è quella fatta da Paul Ricoeur tra identità idem e identità ipse. La permanenza dell’essere collettivo attraverso incessanti cambiamenti (identità ipse) non può ricondursi a ciò che appartiene all’ordine dell’evento o della ripetizione (identità idem). Essa è al contrario legata a tutta una ermeneutica di sé, a tutto un lavoro di narratologia destinato a far apparire un “luogo”, uno spazio-tempo che configura un senso e forma la condizione stessa della appropriazione di sé. In una prospettiva fenomenologica, dove niente è dato naturalmente, l’oggetto procede infatti sempre da una elaborazione costituente, da un racconto ermeneutico caratterizzato dall’affermazione di un punto di vista che organizza retrospettivamente gli eventi per dare loro un senso. «Il racconto costruisce l’identità narrativa», dice Ricoeur, «costruendo quella della storia raccontata. È l’identità della storia a fare l’identità del personaggio»5. Difendere la propria identità non significa dunque accontentarsi di enumerare ritualmente dei punti di riferimento storici ritenuti fondanti, né cantare il passato per meglio evitare di fronteggiare il presente. Vuol dire comprendere l’identità come ciò che si conserva nel gioco delle differenziazioni: non come il medesimo, ma come il nodo sempre singolare di cambiare o di non cambiare. Non si tratta allora di scegliere l’identità idem contro l’identità ipse, o l’inverso, ma di coglierle entrambe nei loro reciproci rapporti mediante una narrazione organizzatrice che tenga conto al contempo della determinazione di sé e della determinazione dell’altro. Ricreare le condizioni nelle quali ridiventi possibile produrre un tale racconto costituisce la propriazione di sé. Ma una propriazione che non è mai fissa, poiché la soggettivazione collettiva procede sempre da una scelta più che da un atto, e da un atto più che da un “fatto”. Un popolo si conserva grazie alla sua narratività, adattando il suo essere in successive interpretazioni, diventando soggetto narrando se stesso ed evitando così di perdere la sua identità, ossia di diventare l’oggetto della narrazione di un altro. «Una identità», scrive ancora Philippe Forget, «è sempre un rapporto da sé a sé, una interpretazione di sé e degli altri, di sé attraverso gli altri. In definitiva, è il racconto di sé, elaborato nel rapporto dialettico con l’altro, che perfeziona la storia umana e consegna una collettività alla storia… È attraverso l’atto del racconto che l’identità personale perdura e concilia stabilità e trasformazione. L’identità personale di un individuo, di un popolo, si costruisce e conserva con il movimento del racconto, con il dinamismo dell’intrigo che fonda l’operazione narrativa, come dice Ricoeur»6. Ciò che oggi minaccia di più l’identità nazionale possiede insomma una forte dimensione endogena, rappresentata dalla tendenza all’implosione del sociale, ossia alla destrutturazione interna di tutte le forme di socialità organica. Roland Castro ha potuto a giusto titolo parlare a questo proposito di società dove “nessuno sopporta più nessuno”, dove tutti escludono tutti, dove ogni individuo diventa potenzialmente estraneo a ogni altro. L’individualismo liberale ha a questo riguardo la responsabilità più grande. Come parlare di “fraternità” (a sinistra) o di “bene comune” (a destra) in una società dove ciascuno si impegna nella ricerca di una massimizzazione solo dei suoi interessi, in una rivalità mimetica senza fine che assume la forma di una fuga in avanti, di una concorrenza permanente priva di ogni finalità? Come ha notato Christian Thorel, è «l’importanza attribuita all’individuo a scapito del sociale [che] conduce alla scomparsa dello sguardo sull’altro»7. Il problema dell’immigrazione rischia precisamente di cancellare questa evidenza. Da una parte, l’esclusione di cui sono vittime gli immigrati rischia di far dimenticare che viviamo sempre più in una società dove l’esclusione è la regola anche tra gli stessi “autoctoni”. Sopportandosi già sempre meno tra di loro, perché i francesi dovrebbero sopportare gli stranieri? Alcuni rimproveri, d’altra parte, cadono da soli. Si dice spesso ai giovani immigrati che “nutrono odio” che dovrebbero avere rispetto del “Paese che li accoglie”. Ma perché i giovani beurs8 dovrebbero essere più patrioti dei giovani di stirpe francese che non lo sono più? Il rischio più grande, insomma, consisterebbe nel far credere che la critica dell’immigrazione, in sé legittima, sarà facilitata dalla crescita degli egoismi, mentre è questa crescita a disfare più profondamente il tessuto sociale. Del resto, qui è tutto il problema della xenofobia. Si crede di fortificare il sentimento nazionale fondandolo sul rifiuto dell’Altro. Dopodiché, una volta presa l’abitudine, si finisce con il trovare normale il rifiuto dei propri compatrioti. Una società cosciente della sua identità non può essere forte che quando fa passare il bene comune davanti all’interesse individuale, la solidarietà, la convivialità e la generosità verso l’altro davanti all’ossessione della concorrenza e al trionfo dell’io. Non può durare che quando si impone regole di disinteresse e gratuità, solo modo per sfuggire alla reificazione dei rapporti sociali, ossia all’avvento di un mondo in cui l’uomo si produce come oggetto dopo aver trasformato in artefatto tutto ciò che lo circonda. Ora, è ben evidente che non è predicando l’egoismo, fosse anche in nome della “lotta per la vita” (semplice ritrasposizione del principio individualista della “guerra di tutti contro tutti”), che si può ricreare la socialità conviviale e organica senza la quale non c’è popolo degno di questo nome. Non si ritroverà la “fraternità” in una società dove ciascuno ha il solo obiettivo di avere più “successo” dei suoi vicini. Non si restituirà il voler vivere insieme facendo appello alla xenofobia, ossia a un’avversione di principio dell’Altro che, a poco a poco, finisce con l’estendersi a tutti.
Note
1. “Historique?”, in Le Point, 14 dicembre 1991, pag. 35. 2. Cfr. a questo proposito le opere fortemente demistificanti di Suzanne Citron, Le mythe national. L’Histoire de France en question (Ouvrières-Études et documentation internationales, 1991), e L’Histoire de France autrement (Ouvrières 1992), che tuttavia cadono frequentemente nell’eccesso opposto a quello che denunciano. Cfr. anche, per una lettura differente della storia francese, Olier Mordrel, Le mythe de l’hexagone, Jean Picollec 1981. 3. “Phénoménologie de la menace. Sujet, narration, stratégie”, in Krisis, aprile 1992, pag. 3. 4. Ibidem, pag. 5. 5. Soi-même comme un autre, Seuil 1990,pag. 175. 6. Art. cit., pagg. 6-7. 7. Le Monde, 17 agosto 1990.8 Termine con cui si indicano i giovani nati in Francia da genitori magrebini immigrati (n.d.t.).