Civismo e localismo sembrano le chiavi di lettura per interpretare questa tornata elettorale, ma anche per spiegare la crisi della politica e di quello che una volta era il centrodestra italiano, più nello specifico.
Una premessa valida quasi per tutti. Mancano progetti generali, grandi narrazioni, appartenenze forti. È saltata definitivamente la forma-partito. L’ideologia della rottamazione divora presto gli stessi rottamatori che l’hanno plasmata, e tutto diventa estemporaneo, usa e getta. L’unica eccezione alla regola sono i grillini: sarà la probabile prova di governo della Capitale a segnare la loro evoluzione. Per il momento, sono l’unico movimento centripeto e centralista, capace di un unico centro di comando, refrattario alle spinte della frammentazione localistica. Qui la rottamazione tiene ancora perché è rivolta all’intero sistema e non a una classe dirigente o a un passato o a vecchi leader in declino. Tiene ancora anche in virtù di fatti eclatanti che danno credibilità, davanti all’opinione pubblica, a certe espressioni di cambiamento radicale e creano profonde rendite di posizione: si pensi, ad esempio, alla volontaria decurtazione di una parte dello stipendio da parte dei parlamentari Cinque Stelle. Fatti, in un’epoca che attribuisce pochissimo senso alle parole e alle affermazioni di principio, ma crede ancora alla forza dei gesti.
Per il resto del sistema politico, si riparte necessariamente dai territori, dalle periferie. I partiti nazionali, quando non vengono ritenuti una zavorra, vengono ceduti in franchising a leader locali completamente autonomi e liberi da vincoli di sorta. Siamo nella fase del decentramento, della riduzione delle identità collettive dal livello nazionale al livello locale. Questo fenomeno è tanto più forte e incisivo quanto più sono deboli i partiti o le coalizioni nazionali. I contenuti vengono dopo e spesso sono purtroppo ininfluenti. Il caso del centrodestra è emblematico. È una sorta di leghizzazione intesa come primazia del periferico, come devolution assoluta della capacità di rappresentanza politica. È il trionfo del civismo. Gli stessi leader emergenti, Salvini e Meloni, alla prova delle urne, esprimono leadership a carattere territoriale, al di là della visibilità nazionale che ottengono grazie ai media.
Si delineano i connotati della Terza Repubblica (ostaggio dei cacicchi locali)
La Terza Repubblica comincia quindi con una scomposizione di tipo spaziale. Un inizio molto diverso da quello della Seconda Repubblica, che si avvicendava alla prima sulla base di una trasformazione delle identità politiche prodotte dalla variabile tempo. Ora, se è vero che questa configurazione del rapporto centro-periferia sembra attagliarsi al naturale spirito italico dei campanili, non è pensabile che possa durare a lungo o che ci si possa presentare con questo assetto alle prossime elezioni generali con qualche speranza di successo. Tra l’altro, il voto di preferenza introdotto dall’Italicum, insieme alla regionalizzazione del Senato, aumenterà il potere dei territori a spese di una rappresentanza davvero politica dei soggetti in campo. Il rischio di ottenere un Parlamento di tanti piccoli leader locali slegati dalle loro sigle politiche è tutt’altro che remoto. Ne risentirà certamente la governabilità. Ma, prima ancora, ne risentirà la capacità dei soggetti di esprimere indirizzi nazionali, identità politiche in senso pieno. Del resto, la politica o è possibilità di tenere insieme il molteplice o non è. Almeno così l’abbiamo sempre intesa a destra. Una politica che si limitasse a prendere atto delle differenze territoriali e a enfatizzarle senza tenerle adeguatamente collegate, non è una politica all’altezza del suo compito federativo. E gli eccessi di personalizzazione non possono colmare il vuoto esistente. Anzi, lo aggravano quando favoriscono la scomposizione.
La crisi delle destre
La crisi della destra, come pure del centrodestra (espressione geometrica ormai desueta da sostituire al più presto con un’altra avente una pregnanza culturale e politica), è intimamente legata alla carenza del collante. Cosa dovrebbe tenere di nuovo insieme persone e storie diverse che si sono separate negli ultimi anni? Non tiene il moderatismo anni Novanta, ormai completamente privo di sostanza, e non c’è più il comune nemico. È stantia anche la vecchia formula liberale dello Stato da alleggerire per premiare la libertà degli individui. La verità è che tutto si è drammaticamente imborghesito, si è perduta la carica rivoluzionaria e si è diventati ospiti tollerati e spesso anche sgraditi dell’establishment. E il popolo questo lo ha capito, e si è rivolto altrove. Questo, nel momento in cui tutti auspicano cambiamenti radicali, soluzioni nuove a problemi inediti.
Quando da destra si è provato a reagire, lo si è fatto con un estremismo verbale che non ha nulla dello stile di una classe politica che vuole assumersi la responsabilità del governo. Premierà pure nel breve, ma non porta da nessuna parte. O ci si è affidati appunto a un civismo che si presume taumaturgico, che in realtà nasconde la polvere sotto il tappeto e indirettamente ammette l’inconsistenza del progetto politico. Lo schema funzionò più di vent’anni fa, ma non può essere replicato. Civismo e localismo sono delle opportunità se trovano dei riferimenti nazionali nei quali riconoscersi. Non sono succedanei della politica. Qui sta il punto. I tempi che viviamo necessitano invece di una politica forte e autorevole, costruita pazientemente, dal basso, accanto al popolo sofferente e alla guida delle classi dirigenti. Non sono ammesse scorciatoie. Il cammino è ancora lungo e il deserto cresce. Guai a cedere ai miraggi.