Ogni volta che parla è come se scaricasse in area le sue pistole, col sorriso sotto i baffi tinti dal fumo delle “Popular”, e le labbra bagnate dalla Coca-Cola: Paco Ignacio Taibo II porta in giro le sue storie con l’allegria di chi ha scavalcato il tempo e lo spazio, come il Parnassus di Terry Gilliam. «Mi muovo come Speedy Gonzales: rapidamente, da un genere all’altro, dalla storia al romanzo, dalle biografie al giornalismo, per non farmi incarcerare».
È a Napoli, per presentare il suo romanzo: “A quattro mani” edito da Lanuovafrontiera (traduzione di Pino Cacucci e Gloria Corica). È un ritorno felice per un grande libro scritto quasi trenta anni fa, e che ora appare come una cronaca del tempo presente: è un romanzo sulla disinformazione che mescola realtà e finzione, personaggi come Stan Laurel, Houdini, Pancho Villa, Trotsky e soprattutto il suo nonno materno, Tomas Fernandez, un asturiano che sembra il personaggio di maggior finzione e invece è reale: «come diceva il mio amico Manuel Vazquez Montalban, la regola più importante di un romanzo non è la realtà ma la credibilità». E credibili sono tutti i personaggi della storia, a cominciare dai due giornalisti che muovono il romanzo “A quattro mani”: Greg Simon e Julio Fernandez – che poi per corpo e dinamiche rifanno Stan Laurel e Oliver Hardy anche se guardano a Hunter Thompson e Ryszard Kapuscinski.
«Si può scrivere di tutto anche che gli angeli volano, l’importante è stabilire un patto col lettore, dargli dei dettagli che siano sufficienti per essere creduti, è quello che cerco di fare». Impossibile non credere a Taibo, impossibile non andare dietro a uno scrittore che quando chiede una Coca-Cola impone il limone, la cannuccia e l’assenza di ghiaccio, e poi la assapora come se fosse un vino, riconoscendo le sfumature in ogni paese. In questo gioco che fa anche mentre racconta la trama impossibile di “A quattro mani” c’è il suo mondo: trattare quello che è normale come se fosse speciale e viceversa. «È un fiume, questo libro, che è nato da una discussione con il mio agente americano che a New York, mi chiedeva di scrivere un altro giallo, non bisogna mai rifare quello che si è già fatto, per questo ho deciso di uscire dal genere, dallo stagno dell’enigma, senza abbandonarlo, aggiungendoci l’avventura salgariana, la cronaca politica, la disinformazione storica con il personaggio di Alex e il suo dipartimento che inquina e travolge i paesi che alzano la testa».
Taibo distingue tra giornalismo di stato e giornalismo libero – soprattutto in Messico – , tra letteratura light e letteratura vera, evocando un giornalismo che tocca ancora le cose, che attraversa gli oceani per andare a guardare in faccia le persone. Un giornalismo che ha praticato e che si diverte ancora a frequentare. «La mia colonna vertebrale è formata da Leonardo Sciascia, Italo Calvino – quello del fantastico –, Leopardi, Ungaretti, e soprattutto dal cinema politico italiano: Francesco Rosi, Elio Petri, Mario Monicelli, Gillo Pontecorvo, la sua “Battaglia di Algeri” mi ha folgorato come San Paolo sulla via di Damasco, quando ho incontrato quest’uomo l’ho baciato in testa, ed ero felice che avesse letto qualche mio libro».
Sarà per questo che le sue pagine sono sempre dilatate in campo lungo, e che la sua docu-fiction su Ernesto Guevara è stata un grande successo per TeleSur e ora arriverà in tutto il mondo: «sono stato subito un fan delle serie tivù, come “City of Men” o “Low Winter Sun”, mi piace che escano dal tempo cinematografico inseguendo quello del romanzo». Mentre lui insegue un romanzo al giorno, ieri voleva scrivere di Tazio Nuvolari, «aveva un casco che era un elmetto da supereroe», facendolo correre per una strada di Città del Messico, la calle Amsterdam, a forma ellittica, dove i fighetti di destra messicani passano il tempo tra una birra e l’altra.
«In realtà sto scrivendo sull’origine della guerra al narcotraffico in Messico, per me è assurdo che il presidente del Messico e il ministro degli interni per coprire una mancanza politica abbiano causato trentamila morti; poi anche un saggio storico e penso da anni a un romanzo che si conclude a Napoli, a Spaccanapoli per la precisione, un luogo da capogiro nel posto più interessante del mondo, perché mi sembra di stare a Città del Messico. Un luogo vitale dove la gente si insulta con allegria. La prima volta che sono venuto, mi pubblicava Longanesi, era anni fa, e uscendo dalla stazione ho visto un uomo su un motorino che martellava un semaforo, meraviglioso sono a casa. In una città libera».
Perché Taibo da vero scrittore è un ladro, che sia la radio che gli trasmette la morte del Che, che sia la metropolitana di Parigi dove è rimasto per dieci fermate a guardare un nero elegantissimo con lo sguardo sfuggente, o il lungomare di Napoli; è un includente, tutto concorre a formare le sue pagine. Onnivoro, come il Messico, che difende nel lato umano: «le tre cose belle del mio paese sono i messicani, le messicane e i figli dei messicani e delle messicane».
Per gli Stati Uniti è più complicato, le tre cose si ingarbugliano con i sentimenti: «Jane Fonda, che amo e che mi entra in una conferenza per sbaglio, in un hotel del Wisconsin dove non potevo fumare, non cercava me ma suo marito, alla fine ho fumato. Tutta la letteratura nera da Chandler a Ellroy. E, infine, la rivendicazione di Hollywood come territorio messicano, si tengano il cinema ma devono darci la terra». Taibo è così, un continuo discorso bailado, un Sivori della pagina e delle discussioni. Che passa dal gioco letterario a quello dei war games «dove con gli aztechi sto facendo il culo ai prussiani». È un uomo che ha scritto un mucchio di libri, quasi ottanta, e crede ancora in quello che lo ha portato a scrivere. La libertà che diventa opposizione, rifiuto al pensiero neoliberista, al conformismo, alla semplificazione letteraria.