*L’introduzione alla raccolta di poesie “Senza” scritta dall’autore Alessandro Lattarulo.
Restare senza voce, senza amici, senza ideali, in un’Italia senza, come sentenziò corrosivamente Alberto Arbasino, accomiatandosi dai contradditori ma vivaci anni Settanta, attraverso la descrizione di una penisola vittima di abbagli e di velleità, satura di informazione spesso servile e abbacinata dalla contro-informazione. Un Paese che si ritrova quasi quarant’anni più tardi a galleggiare in altri mari, senza salvagenti di certezza alcuna, nel cicaleccio iodico di un monologo collettivo in cui l’effetto omologazione risulta talmente penetrante da narcotizzare esperienze della realtà che desiderino capovolgere l’ordine tra il dato e l’ancora da creare. Planiamo sedentari su foreste digitali tra le cui fronde riusciamo saltuariamente, con soffocante difficoltà, a districare le odierne psicopatologie tecnologiche, che suadenti ci conducono alla perdita del mondo circostante e del mondo interiore, trasformando in paradosso tutt’al più narrativo il soliloquio dell’anima. Passività e inerzia incupiscono l’atmosfera del nostro tempo, nel quale passato, presente e futuro si saldano in un eterno “oltre” irrelato, nel quale liberare spontaneità selvagge refrattarie alla circolazione del senso e che esauriscono la propria ferocia onnivora nella fascinazione dello spettacolare. In una giostra rutilante dalle cui vertigini appaltiamo a scaltri professionisti del marketing la trasformazione dei relativamente contenuti bisogni a innumeri desideri, nonché il confezionamento di idee prive di spessore critico, incurabilmente affabulati dal timore che il dedalo dei rapporti umani perda la propria idoneità a perpetuare l’illusione e non la sostanza del vivere.
La società liquida descritta da Bauman, in cui tutto può accadere e tutto può essere fatto, ma nulla fatto una volta per tutte, è la gelatina istituente una nebulosa simbolica esposta al mutamento continuo, nel quale viene meno la legittimità del Grande Altro lacaniano, ossia di una razionalizzazione e stabilizzazione del repertorio immaginario personale e collettivo, divenuto, invece, uno spazio estetico che satura l’orizzonte della vita quotidiana e si lascia inerzialmente accompagnare per mano, nell’illusione di sfuggire al disorientamento. Ormai metabolizzata la rivendicazione sessantottina dai tratti antigerarchici per la quale l’Io potesse farsi legislatore di sé stesso, questo medesimo Io è oggi diversamente irreggimentato in un sofisticato dispositivo consumistico, in uno spazio pubblico mediatizzato nel quale la cultura si struttura attorno a una inedita forma di neo-sofismo. “Vero” è ciò che viene efficacemente comunicato, che ha la capacità di catturarci e assorbirci ma anche di farci sentire piccoli se non, addirittura, bersaglio mobile di un coinvolgimento fisico ed emotivo delle cui dinamiche siamo spettatori abbacinati, in attesa di essere sottratti allo stordimento senza particolare attenzione all’identità e ai fini ultimi dei salvatori.
Tra le pieghe di questa falsa minorità, additataci facendo leva sulla fabbricazione di un assurdo “senso di colpa”, si insinua una noia sottile che rinvigorisce e deforma la ricerca dell’elisir di giovinezza, malsana contrazione del valore della vita in quel ristretto torno di tempo nel quale siamo biologicamente più forti. Euforia dionisiaca con la quale occultare lo spaesamento imputandolo all’orologio biologico, e che impone di procrastinare, a prezzo di meschini sacrifici frustranti, i baccanali fino al limitare del nichilismo, canalizzando la volontà di potenza in diritto al godimento, così declassando la vecchiaia a pagina di mestizia, a fragile anfora di creta dalla quale non poter estrarre neppure la lettera vergata a mano nell’isola-che-non-c’è.
Arde la pulviscolare sabbia di un deserto sul quale la speranza di con-dividere esperienze fisiche e pratiche comunicative rinsecchisce dell’intenzione si è capovolta da caritatevole tribunale della coscienza per la formulazione di un giudizio terreno delle azioni altrui, passibile di errore nella misura in cui il dubbio costituisca talvolta la risposta alle domande umane, in un alibi per rinfrancare i renitenti e i riluttanti che il Male è umile e si insinua ovunque. Con un soprassalto poco credibilmente tragico, le dinamiche dell’esistenza vengono spesso ridotte a dualismi archetipici, che affrescano grossolanamente consunte scene millenaristiche, suggerendo il deragliamento di ogni auspicabile equilibrio per la cronica corruttibilità della natura umana. Non resta allora che allestire una rappresentazione che deleghi al televoto il successo di un “nuovo” spasmodicamente ricercato tra la fuliggine di desideri indotti sadicamente. Divenuti priorità per ordine di un Padre ipnotico che, sostituendo il freudiano Super-Io sociale, distrugge la quintessenza dell’individualità e, nel chiuso dei cortocircuiti di ciascuno, impasta folle di gregari affettivamente atrofici, la cui identità si definisce primariamente attraverso la capacità di consumo del superfluo.
Eppure non esiste uomo che non sogni e non c’è sogno che non veicoli, anche soltanto per lo scarto che il ricordo istituisce tra la veglia e l’esperienza onirica, un pizzico di disperazione. Questa si amplifica quando si distruggono tutti i catarifrangenti che indicano un percorso verosimile, se non proprio razionalizzato, del proprio destino, e si rimane paralizzati da ossessioni estemporanee. Ma provare disperazione è anche una risorsa, perché in sua assenza non è possibile sperare.
E non sperare, significa restare senza.
*Senza di Alessandro Lattarulo, pp 80, euro 10, Wip edizioni Bari