Rodolfo Gordini ha curato recentemente (e con minuziosa diligenza editoriale) per l’editore senese Cantagalli, sotto il titolo La folgore di Apollo (novembre 2015) una preziosa silloge di scritti (articoli, saggi, recensioni) di Roberto Melchionda dedicati, in diversi tempi ed occasioni, al pensiero di Julius Evola.
Il libro è completato con una appendice che raccoglie una interessante corrispondenza tra
Gian Franco Lami (già assistente di Augusto del Noce) e Roberto Melchionda e tra questi e lo stesso Julius Evola.
Si tratta di un libro capitale per capire la personalità di Evola e penetrare nel suo pensiero. I suoi seguaci (in particolare gli evolomani) considerano Evola – come giustamente osserva Marcello Veneziani, nella sagace prefazione a questo libro – “un Maestro, un Sapiente, un Testimone della Tradizione e dei saperi esoterici, una figura ieratica di Pensatore dell’Assoluto”, tenendosi però prudentemente lontani dalla filosofia evoliana che invece lo stesso Veneziani, nella sua età giovanile, affrontò nei suoi studi di filosofia, sviluppando nella sua tesi di laurea una acuta e per molti aspetti originale indagine sull’Evola filosofo, confrontato con le correnti di pensiero del suo tempo.
Solamente altri due importanti saggisti, oltre a Veneziani, hanno interpretato Evola come filosofo: Giovanni Sessa e Roberto Melchionda.
Melchionda in particolare, dopo aver transitato, durante il volontarismo politico della sua gioventù, nel pensiero di Friedrich Nietzche e Ugo Spirito resta affascinato da Julius Evola con il quale ha un intercambio epistolare che accende, nella sua vocazione filosofica, il desiderio di addentrarsi nel sistema della filosofia evoliana per captare la chiave pe adatta a penetrare nel pensiero del Maestro della Tradizione primordiale.
Già nel 1984, pubblicando il libro Il volto di Dioniso per i tipoi di Basaia editore, Melchionda aveva indagato, in chiave dionisiaca, la filosofia e l’arte in Julius Evola, risalendo alla stagione filosofica di Evola svolta tra gli anni Venti e Trenta del secolo scorso, ricavandone che questo interesse filosofico non era “un impegno a sè stante”, ma costituiva invece la premessa ideale (e non solo cronologica) e la radice speculativa di tutto il successivo pensiero evoliano.
Su questa sua accertata convinzione, Melchionda ha confrontato la filosofia transidealista dell’individuo assoluto di Evola con l’idealismo di Giovanni Gentile ed Ugo Spirito; e ha rapportato quindi l’idealismo magico evoliano derivato da questa esperienza, con la sua opera restante: la battaglia culturale in difesa della Tradizione, l’evolismo politico durante il fascismo ed il post-fascismo.
Confesso che, nel leggere il libro, il mio maggior interesse s’è appuntato, soprattutto, sul confronto filosofico che Melchionda svolge tra Evola e Gentile; un tema questo che risale ad un periodo politico-culturale della mia giovinezza, quando la rivista Cantiere (1950-1953) cercava un punto di mediazione possibile tra i due filosofi, il cui pensiero animava, rispettivamente, due correnti culturali della gioventù del Msi, le quali si confrontavano in polemiche spesso molto accese.
Roberto Melchionda dedicò un saggio acuto ed originale al confronto Gentile-Evola (pubblicato sulla rivista Storia/Verità 8.n.17, 1994). Egli parte dalla visione gentiliana del Risorgimento italiano, connotata da una ispirazione spiritualista e religiosa che si muove altresì da esigenze etiche e che si collocano non come un seguito della rivoluzione francese, come faceva buona parte della cultura italiana di quel tempo, bensì come un superamento delle istanze sensistiche e individualistiche che avevano contraddistinto quell’avvenimento storico-politico e culturale in Francia. L’influenza francese in Italia, associata ad idee mutuate dall’Inghilterra, aveva finito per intaccare la fibra morale della Nazione, per cui l’avvenimento tragico e doloroso della prima guerra mondiale del 1915, aprí nelle vene del popolo italiano un’epoca nuova, sfociata quindi nel fascismo come lo spirito di un “liberalismo etico” (p. 104-105).
Melchionda confronta questa fase del pensiero gentiliano con quella analoga di Julius Evola; il quale già dotato di un bagaglio filosofico determinato, compie i suoi primi passi politici scrivendo sulla rivista aventiniana Lo Stato democratico dove critica sia la democrazia degli oppositori dell’incipiente fascismo, sia il giovane fascismo per il suo insufficiente antidemocratismo. Però già l’anno seguente troviamo Evola collaboratore della bottaiana Critica fascista e di Vita Nova di Arpinati, iniziando così il suo fiancheggiamento del fascismo, proseguito con spirito d’indipendenza e sostenuto dal suo ordine di idee elitarie fino alla fine del regime.
Da questo confronto, Melchionda ricava che tanto Evola come Gentile, sia pure per vie diverse, pervengono alla politica dalla filosofia, avendo ambedue in comune la ragione filosofica che li conduce all’impegno politico. Risulta evidente – secondo Melchionda – una affinità tra i due; affinità segnata da questa caratteristica: un potente “spiritualismo assoluto”, attivo e combattivo.
Lo spirito primeggia sulla politica sia nell’unità di individuo e Stato propugnata da Gentile, come nello Stato organico aristocratico di Evola: posizioni, ambedue sostenute da un esigentissimo spiritualismo pratico.
Le analogie politiche erano state precedute da analogie filosofiche. Infatti Melchionda sottolinea che la filosofica evoliana incomincia “dall’autocoscienza gentiliana” che Evola ritiene insuperabile, per cui deve distanziarsi da essa per fare un balzo in avanti: uscire dalla filosofia per entrare nella teoria ciclica della storia che celebra l’essere contro il divenire; mentre Gentile concepisce la storia come un processo lineare progressivo, dove il divenire s’identifica nello spirito. Qui, l’analogia si fa separazione che – sottolinea Melchionda – si manifesta in entrambi come ricerca d’appagamento spirituale che si richiama all’agire ed al volere del soggetto come “sete d’assoluto”. Si tratta d’una separazione che, paradossalmente, colloca Evola e Gentile su posizioni filosoficamente ultime: a rispitualizzare la vita politica per compatibilizzarla con le istanze del loro spiritualismo assoluto.
Queste analogie non hanno escluso il confronto polemico tra i due personaggi, soprattutto da parte di Evola che criticava l’io trascendentale di Gentile nel quale è già insito il socius quale essenza della società che si manifesta quindi come “società trascendentale”. Il punto critico di Evola partiva dall’io assoluto dell’idealismo attualista, compreso quel soggetto unico assoluto che assurgendo ad “individuo universale” si fa autocoscienza che si risolve nell’unicità del tutto. Evola infatti riteneva che il suo Io reale non dovesse confondersi con la doppia funzione dialettica dell’io empirico e dell’Io trascendentale; funzione riassunta nell’unità immoltiplicabile dell’Io gentiliano che, come affermerà poi Gentile nell’ultima opera sua (“Genesi e struttura della Società”, p.11-14) si fa “voce di tutti e del tutto voce dell’eterno e dell’infinito”.
Per Evola, l’Io reale emerge dal volere libero, centro d’una responsabilità universale intimamente connessa al mondo del valore (“Teoria dell’Individuo Assoluto”, p.24 e 32, ed. 1927).
Ma, al di là della polemica evoliana (Gentile, che si sappia, non polemizzò mai con Evola),
la virtù eroica – esaltata da Evola come l’elemento indispensabile per la autorealizzazione dell’Individuo Assoluto, fondamento di un “personalismo eroico” in visione tradizionale – richiama d’appresso quell’educazione della volontà e del carattere che, secondo Gentile conferisce le doti della “unità, della necessità e della razionalità” all’atto volitivo, per cui il volere “s’innanza al valore dell’universalità, laddove la volizione quale atto della volontà positiva (costamza, fermezza, energia) si contrappone alla velleità, cioè alla volontà negativa, fallace, priva di valore efficace perchè “cede alle difficoltà che l’atto del volere dovrebbe vincere”.
Sia pure con le cautele ed i distinguo del caso – annota ancora Melchionda – il loro rispettivo pensiero s’affiancò al fascismo, e non fu un caso che nel secondo dopoguerra i giovani neofascisti e post-fascisti si siano richiamati, pur se in modi diversi e secondo distinte angolature, al pensiero dell’uno o dell’altro.
Questo libro di Melchionda, proprio nel confronto tra il pensiero del Barone e quello di Giovanni Gentile, ci stimola a rileggere Evola con una diversa chiave interpretativa, suggerita, inoltre, da un altro acuto studioso dell’opera evoliana qual è Giovanni Sessa. Sessa, in un saggio pubblicato su “Studi evoliani 2013” (La destra tradizionale tra mito e storia) suggeritogli da un libro recente di Francesco Germinario, dissente da coloro che ridussero ad un mito “incapacitante” l’influenza di Evola sulla gioventù di destra – come sostenne invece a suo tempo, tra gli altri Marco Tarchi – e fa sua la definizione di Evola come “pensatore totus politicus”.
Per Giovanni Sessa, Evola ripropone una antropologia della Tradizione quando invita i suoi seguaci ad “immunizzarsi dal divenire storico”, il che significa – reputa Sessa – non congelarsi nell’essere immobile, ma postulare invece una una idea della Tradizione non statica, contemplativa, bensì dinamica come confermò l’attivismo politico del Barone tradizionalista; attivismo espresso mediante un magistero dottrinale che s’interroga costantemente sul senso della vita e del mondo in cui è immerso, onde attestare in esso la sua filosofia: una filosofia della Responsabiità, dell’Ordine, per la Città.
Come chiarì nel suo “Il mistero del Graal”, per Evola il metodo tradizionale consiste – osserva ancora Sessa – non nel rifuggire dal procedere del tempo storico – come avvviene in pensatori controrivoluzionari (quali Burke e De Maistre, ad esempio) – ma “nel cercare le intersezioni tra storia e sovrastoria, tra natura e sovranatura” affinchè l’uomo – considerati i tempi cliclici – “agisca in modo che l’Origine si faccia Evento”, affinchè l’uomo differenziato si faccia vir potens, capace di promuovere la civiltà dell’essere, in opposizione a coloro che si lasciano ingoiare nella “caduta libera del divenire”. Tutto questo, conclude Giovanni Sessa, fa di Julius Evola un pensatore europeo, filosofo di un nuovo Inizio.
A questo nuovo inizio – mi permetto di osservare – perviene egualmente Giovanni Gentile, sia pur attravero un cammino, là dove il filosofo di Castelvetrano sostiene la religiosità della vita, affermando che lo stesso pensiero, nucleo essenziale della sua filosofia, “non puó esistere a nessun patto senza assumere un atteggiamento religioso”, sicchè la nostra azione deve essere compenetrata dal senso del divino. La religione – sostiene Gentile – “può passare per il fuoco del pensiero senza bruciarsi le ali ed anzi acquistare quella forza e vitalità che altrimenti non avrebbe”, per cui l’auspicio del filosofo è che “religione e filosofia finiscano per fondersi in una sola concezione della realtà e della vita”. In quest’ottica, la filosofia di Gentile è – al tempo stesso, anch’essa – una filosofia dell’Ordine e della Responsabilità per la Città nuova e ventura.
Tutte queste anologie ci accertano che la folgore di Apollo che brillò nel pensiero di Evola,
si ripercosse altresì in quello di Gentile; per cui non è azzardato – come intuí, con audacia interpretativa, Roberto Melchionda – ipotizzare un punto d’incontro tra l’attualismo gentiliano e il transidealismo evoliano al fine d’attingere al contributo dottrinale d’entrambi, anzichè infranscarsi in polemiche tra evoliani e gentiliani. Polemiche sterili e inutili che indebliscono il fronte di coloro che – in piedi tra le rovine morali e politiche del nostro tempo di crisi abissali – dovrebbero restare affiancati nel combattimento decisivo per la necessaria vittoria dello Spirito.
1* F.GERMINARIO, Tradizione Mito e Storia. La cultura politica della destra radicale e i suoi teorici. Carocci, Roma 2014.