L’impressione di aver vissuto qualcosa di unico ed eccezionale, porta la mia memoria alla stagione dell’adolescenza. L’ingenuità della gioventù, un comitato con progetti ambiziosi e l’incontro inobliabile con lo sguardo di un popolo altero. La cornice è Roma, il verde di una rischiarata Villa Borghese e i rappresentanti di due delegazioni di Nativi: i Dakota Sioux e i Plains Cree. Sono gli anni ’90, la mia strada, in una danza del sole tutta romana, si perde nel cammino spirituale degli Indiani d’America. Scopro, in un’illuminazione tutta selvaggia, l’inutilità della padronanza di una lingua: un’intera settimana nell’affabulazione dello sguardo. Carrellate di espressioni, che ancora intatte, si avvolgono nel cuore per riallacciarsi alla magia del ricordo.
Alcuni incontri si preparano autonomamente negli anni. Il mio, tutto di pellicola, nasce nel cinema dell’infanzia: una curiosità smodata per un popolo libero e fiero. Grandi tribù di guerrieri che il cinema hollywoodiano, in nome di un nazionalismo oppressore, ha ripetutamente maltrattato. Solo dopo gli anni ’60, l’industria del cinema americano muta direzione. Prima di quella stagione, i “pellerossa” figurano esclusivamente come l’emblema del male: selvaggi crudeli e assassini nell’attacco all’uomo bianco. Assalto, che con un senno del poi eccessivamente tardivo, figura come la legittima difesa del proprio patrimonio. Lo stesso John Ford è nel 1932 l’ottimo cineasta di “Ombre rosse”. Nel 1964 è ancora un eccellente regista ne “Il grande sentiero” con il prolungamento di un uomo ravveduto. Se in “Ombre Rosse”, sparpagliati in campi lunghissimi, gli Indiani sono inquietanti sagome malvage, ne “Il grande sentiero” si riappropriano finalmente della grandezza originaria troppo a lungo deformata dal cinema americano. John Ford, come in un film testamentario, fa opera di risarcimento: restituisce loro, il bottino morale ingiustamente sottratto. Un indennizzo, che almeno nella finzione, giunge mediante numerose pellicole sino ai nostri giorni.
È una prospettiva non soggiogata dal pensiero unico del persecutore, capace di cogliere tutte le tonalità e i suoni di creature meravigliose. Un’angolazione speciale che rifiuta la superficie invadente delle cose e favorisce uno sguardo in profondità. La fuga dal precostituito approda nelle praterie dell’America settentrionale, per immergersi nella grandezza di una cultura e nella potenza della natura. Un altrove dominato dall’armonica circolarità del creato dove la figura femminile è portentosamente al centro.
Sono le meravigliose immagini dei Nativi americani in tutta la loro essenza di guerrieri, quelle che troviamo celebrate nei tratti di due artisti del fumetto: Stefano Babini e Lele Vianello. Entrambi legati al leggendario segno di Hugo Pratt, in un opera grandiosa, festeggiano la grande passione comune per gli Indiani d’America. Babini adopera una tecnica mista: acquerello, pastelli, biro e pennarelli. Vianello è un purista dell’acquerello. Senza conoscere la meta, in assenza di un progetto di pubblicazione, insieme intraprendono un viaggio all’interno dello spirito di un popolo. I disegni godono della libertà dell’artista che crea per se stesso. Poi il caso e l’idea accadono nella vita e si fanno opera in un libro da collezione.
Il volume segue un tracciato preciso solo nella geografia delle tribù: la partenza dal sud con Sioux, Apache, Cheyenne e l’arrivo nel nord degli Uroni e degli Irochesi. Le creazioni dei due artisti appaiono intenzionalmente non firmate, nella volontà di invitare lo sguardo del lettore a una sorta di caccia al riconoscimento. L’impressione di immagini viventi, portatrici di una spiritualità pulsante è armonicamente intervallata da estratti di film di genere:
Il popolo degli uomini è convinto che ogni cosa sia viva: non solo gli uomini e gli animali, ma anche l’acqua, la terra, le pietre… Per noi tutto è immutabile, in eterno. L’uomo bianco invece, crede che tutto sia mortale, le pietre, la terra, gli animali, gli uomini, anche quelli del suo popolo; e più una cosa è viva, più i bianchi fanno di tutto per distruggerla. È questa la differenza. (Da “Piccolo grande uomo di Arthur Penn – Chief Dan George: Cotenna di Bisonte).
Nelle tribù, la figura della donna detiene un ruolo fondamentale, rappresenta il motore economico, la custode gioiosa dell’infanzia e l’oggetto del desiderio in premure e attenzioni maschili. Nel volume Indians ritroviamo la centralità in icone eroticamente selvagge. L’indiana di Vianello è l’inesplorato dentro la veridicità di un tratto che la rende reale. La nativa di Babini figura un rapimento: dal sogno alla prateria. Donne magnificate nella sapienza di due stili che si cristallizzano in un tratto autorevolmente guerriero. L’immagine che apre il libro è l’unica nella comunità del lavoro. Impossibile separarla o attribuirla a uno rispetto all’altro. Un disegno unico fatto da entrambi gli artisti: l’evocazione di un gruppo di Apache, tratta da una fotografia di “Nessuna pietà per Ulzana”.
Il volume nella celebrazione del grande popolo degli Indiani d’America è una lettura per immagini tutta da vivere e sognare. Un tornare indietro, una rêverie a tratti malinconica nel ricordo di un popolo violato, deturpato e martirizzato. Un omaggio grandissimo tutto nella sapienza di due grandi capi del fumetto: dalla parte dei Nativi con Stefano Babini e Lele Vianello.
*Indians, Babini/Vianello – Edizioni Dark Crow