Sono veramente indignato per quel ch’è accaduto il 10 aprile scorso a Hiroshima. Sono indignato per l’ipocrisia e l’arroganza del vicepresidente statunitense Kerry che in occasione del G7 ha visitato Hiroshima, ha riempito la sua giornata di generiche chiacchiere, ha promesso un mondo migliore che un giorno sarà privo di minaccia nucleare e tutto questo come base per un inopportuno e dissennato attacco alla Corea del Nord che non accetta il ricatto del “Trattato di Non Proliferazione” e dunque di un mondo nel quale la maggioranza delle nazioni sono condannate a vivere in condizioni d’inferiorità militari sotto l’eterna minaccia degli unici detentori legittimi della bomba. Che questa feroce arroganza si manifesti sotto l’ipocrita veste di un omaggio alle povere vittime di Hiroshima (almeno 340.000, non 140.000) com’è stato detto e anche di Nagasaki (almeno altre 74.000) è semplicemente vergognoso.
Che il governo degli USA non trovi, settantun anni dopo l’episodio, il coraggio di pronunziare nemmeno una parola di resipiscenza ma parli sono il linguaggio del virtuoso cordoglio è ignobile.
Sarebbe davvero proprio il caso, d’altronde, di osservare che chi di politically correct ferisce di politically correct perisce: quanto meno, se anche nella riflessione storica – e nei succedanei mediatici di essa – valesse il principio che le norme universalmente accettate sono uguali per tutti. Ma anche in quest’àmbito, evidentemente, ci sono alcuni che sono orwellianamente “più uguali” degli altri.
Non so se il presidente Obama andrà davvero prima o poi a rendere omaggio alle vittime dell’orribile massacro perpetrato a Hiroshima il 6 agosto del 1945 dalla bomba atomica lanciata dall’aereo militare statunitense che portava il nome, destinato a una macabra fama, di Enola Gay (e lasciamo da parte l’iterazione “minore” di Nagasaki, qualche giorno più tardi). C’è andato intanto, come dicevo, il vicepresidente Kerry, che notoriamente non è un miracolo di finezza né diplomatica né intellettuale ma al quale sembra tuttavia arduo addossare per intero la responsabilità dell’incredibile gaffe commessa. Ed è purtroppo anzi generoso eufemismo definirla tale: perché ha invece l’aspetto della cinica e feroce negazione, dell’ostinata arroganza, addirittura – come vedremo – della cinica ancorché grossolana astuzia politica relativa alla situazione interna agli USA.
In effetti, un ormai noioso e stucchevole conformismo ha imposto l’abitudine diffusa – eticamente discutibile, storicamente assurda e insensata – di “chiedere scusa” per i passati errori ed orrori. Lasciamo da parte il caso-limite della shoah, rispetto al quale nessuna scusa formale è stata mai nemmeno accettata (sono solo le vittime che potrebbero accoglierla, nessuno ha il diritto di farsene procuratore). Ma anche per infiniti altri casi di genocidi e di massacri negli ultimi anni c’è stata una “nobile” – in realtà sovente grottesca – gara al cospargersi il capo di cenere. Pensiamo solo a casi come le crociate e l’inquisizione (rispetto ai quali al chiesa cattolica è stata perfino troppo precipitosa nell’umiliarsi) oppure agli innumerevoli crimini commessi in età colonialista, che invece hanno visto i discendenti dei loro rispettivi responsabili adottare vari tipi di riserbo a volte quasi giustificazionista.
Ma è comunque obiettivamente troppo che il vicepresidente Kerry, dinanzi al mausoleo delle vittime di Hiroshima, si lasci andare alla non richiesta precisazione – sulla quale ovviamente i media, con concorde servilismo, hanno glissato – che gli Stati Uniti d’America non sono lì, da lui rappresentati, per “chiedere scusa”. Nessuna giustificazione da allora fino ad oggi addotta per Hiroshima e Nagasaki è mai apparsa credibile: quella, in particolare, di una “dolorosa” misura adottata per “abbreviare il conflitto” e quindi “risparmiar vite umane”, è semplicemente infame (il Giappone si arrese il 15 agosto, e lo avrebbe fatto comunque entro pochi giorni anche senza il mezzo milione di morti in più: certo, le cavie umane sono troppo appetibili per i Mengele: e di Mengele al mondo ce ne sono tanti). E, nonostante la balla del necessario “intervento umanitario” teso ad abbreviar la guerra sia stata acriticamente accettata e ripetuta fino alla noia (ve lo figurate un Hitler che fosse arrivato per primo a farsi e ad usare l’atomica? Non avrebbe mai dichiarato nulla di diverso), a smentirla basterebbe un dato: il bombardiere che portava l’ordigno fu preceduto da altri due velivoli incaricati di sganciare, immediatamente prima dell’esplosione, dei sensori appesi a paracaduti che avevano la funzione di misurare gli effetti dell’esplosione. In altri termini, si trattò di un ben meditato esperimento scientifico, freddamente eseguito in corpore vili. Con l’annesso ineliminabile sospetto di un sottinteso razzistico: nonostante atroci – e a loro volta poco giustificabili – bombardamenti come quello di Dresda, un’infamia del genere doveva sembrare a chi la perpetrò impensabile se il suo oggetto fosse stato un’altra popolazione “bianca”. Del resto, e non a caso, all’inizio della guerra negli USA i cittadini nippoamericani erano stati chiusi in campi di concentramento: una misura che non era stata nemmeno pensata per quelli germanoamericani o italoaericani. In America, i giapponesi erano le “scimmie gialle”.
Esiste un negazionismo americano?
Né vale l’argumentum e silentio avanzato da chi ha osserva che da alcun documento risulta che il presidente Truman o i capi del Pentagono abbiano mai pensato a un esperimento. Certe cose non si scrivono: abbiamo forse dimenticato che non esiste nemmeno alcun decreto ufficiale di Hitler che ordini esplicitamente il genocidio degli ebrei? Ma gli studiosi che hanno fatto notare ciò sono stati immediatamente classificati come “negazionisti”. Esiste quindi anche un negazionismo americano?
Parrebbe di sì anche da un altro particolare analogico: quello delle cifre riguardanti le vittime: odiosa computisteria funebre, ma tormentone regolarmente riaffiorato tutte le volte che qualcuno prova a verificare i conti della shoah. Nel caso di Hiroshima è evidentemente ammessa una maggiore disinvoltura. Nessuno ha contestato le cifre proposte a proposito della visita di Kerry, vale a dire 140.000 vittime dell’evento e delle sue immediate o lontane conseguenze. Non si tratta di una cifra ottimista e minimalista. È semplicemente una bugia. Le stime ufficiali del governo giapponese, pur frutto di calcoli complessi e in parte insicuri (ma forse a loro volta ottimistiche) parlano di 80.000 persone morte sul colpo più almeno altrettante decedute in seguito alle lesioni riportate entro al fine dell’ano 1945. Ma gli effetti deleteri delle radiazioni hanno continuato ad uccidere fino ad oggi, provocando affezioni tumorali anche a distanza di anni le conseguenze delle quali sono stati altri 180.000 decessi. In tutto, si parla di circa 340.000 vittime, ben oltre il doppio di quelle ammesse da Kerry e riportate dai media.
E i vincitori hanno con ogni evidenza ben diritto non solo all’immunità, bensì anche a sostanziosi sconti. La logica del diritto applicato a chi vince e a chi perde la conosciamo: ma non si dovrebbe esagerare. Non è piacevole constatare che i criminali di guerra appartengono sempre tutti agli eserciti sconfitti; quando si tratta dei vincitori, ci sono sempre il “fuoco amico”, i “danni collaterali”, i “dolorosi fatali effetti del conflitto”, al massimo gli “errori umani” corretti dalle “buone intenzioni” come quelle di “abbreviare le sofferenze e risparmiare milioni di vite”. Non è questa la strada migliore per facilitare la reciproca comprensione e l’autentica pacificazione tra i popoli.
D’altronde, guai ad addossare la repellente commedia di Kerry alla “solita ingenuità” (?!) dei governi americani. Il vicepresidente recitava scrupolosamente un copione scritto né da lui, né da Obama. Riflettiamo. Se avesse fatto quel che onestamente, pulitamente, andava fatto, che cosa sarebbe successo? Ira funesta (e pelosa) dei repubblicani, che in prossimità delle elezioni del novembre prossimo avrebbero strumentalizzato l’episodio accusando Kerry, quindi Obama, quindi il partito democratico, di aver umiliato la nazione davanti al mondo: e perdita sicura, ingente, di voti per la signora Clinton. Utilizzando l’elementare strumento del Cui prodest si arriva bene a capire da dove sia partita l’idea della miserabile sceneggiata di Hiroshima 2016, una nuova offesa a tutte le innocenti vittime di Hiroshima-Nagasaki 1945 e all’intelligenza di tutti noi.