In prima battuta, mentre i ministri giuravano, si era pensato a qualche forma clamorosa di neo-terrorismo, poi, dopo qualche ora, sulle nostre scrivanie è arrivato il nome e la storia di Luigi Preiti, disoccupato quarantanovenne, calabrese di Rosarno. Lì, a quel punto, sono diventate chiare due cose: la prima è che in Italia sta crescendo un fenomeno potenzialmente eversivo assai più del terrorismo, ovvero una solitaria disperazione di massa non accolta, non governata; la seconda è che Preiti ha colpito criminalmente padri di famiglia e umili servitori dello Stato (forse, dal suo punto di vista, “privilegiati” in quanto titolari di un posto sicuro) nel giorno solenne dell’insediamento di un Governo di tregua politica e di unità nazionale. La tempistica e il luogo non sono stati scelti a caso, e questo testimonia di un calcolo lucido, di un proponimento logico.
Di Preiti sappiamo alcune cose: che era un piccolo edile in difficoltà, che era un padre separato e che era stato costretto, per le tristi e umilianti contingenze della vita, a ritornare al Sud, dai genitori. In queste ore qualcuno se la sta cavando con una diagnosi di comodo: “squilibrio mentale”. Ma è una lettura che semplifica troppo, perché il “male oscuro” di Preiti è il sintomo estremo e isolato di un cupio dissolvi collettivo sempre più diffuso.
Qui sta il vero punto della faccenda, e il nuovo Governo non potrà non guardare fino in fondo negli occhi questo “male oscuro” italiano, perché non basta arrestare il sintomo (Preiti) per sconfiggere la malattia. La depressione, la paura, la disperazione, il rancore sordo, la violenza dei propositi di Preiti li scorgiamo e origliamo ogni giorno nelle parole che sentiamo al bar, nei luoghi di lavoro, per strada. Ne siamo tutti impregnati. Sembrano le moine plateali di un Paese litigioso e pittoresco, ma si sbaglierebbe a leggerle in questo modo riduttivo.
La crisi economica è devastante, perché, rispetto al passato, quando pure per lunghi secoli siamo stati molto più poveri di oggi, la forza economica è tutto, essendo il nostro patto sociale ormai quasi esclusivamente fondato sull’interesse, sul benessere e sulla riuscita socio-economica. E in questa società se fallisci e non ce la fai non c’è più un Dio, non c’è più una comunità, non c’è più niente che possa soccorrerti come uomo – come uomo nella tua interezza. La crisi, perciò, non è solo economica, ma anzitutto sociale e culturale.
Le classi dirigenti hanno sin qui giocato pericolosamente col fuoco, soprattutto per tre motivi: primo, perché hanno permesso con comportamenti irresponsabili che si radicasse la divaricazione fra un noi (il popolo) e un voi (il potere); secondo, perché hanno legato la loro legittimazione e dignità politica alla crescita e allo sviluppo; terzo, perché hanno utilizzato un vocabolario violento e aggressivo che ha reso famigliari, per fini propagandistici, il disprezzo, l’odio, la violenza. E’ vero che la parola “cane” non morde, ma è anche vero che tutti gli atti che noi compiamo sono tutti figli delle parole che ci frullano nella testa. Qui, a quest’altezza del discorso, è inevitabile affermare che tutti noi – scrittori e giornalisti inclusi – dobbiamo fare un passo indietro, e provare a ristabilire una sintassi italiana più generosa e articolata e meno violenta, perché a proposito di “notte italiana” nessuno è immune da colpe e responsabilità.
Il gesto di Preiti dà un segnale preciso al Paese e al Governo: bisogna assolutamente rifondare il nostro patto sociale, ovvero dare una risposta a queste domande: “Cosa unisce noi italiani? In cosa consiste la comunità italiana? Perché stiamo insieme?” A queste domande, sinora, non abbiamo dato una risposta. Ognuno, in Italia, agisce come gli pare, e non c’è una sola cosa – a esclusione della lingua e di un po’ di retorica – che ci tiene uniti. Mediamente ci disprezziamo a vicenda, siamo guidati dalla sola ambizione personale, approfittiamo di qualsiasi cosa, delegittimiamo il lavoro degli altri, deridiamo le istituzioni, eliminiamo a grande velocità riti e legami sociali in nome della libertà. E la libertà, sia chiaro, è un valore fondamentale. Ma poi cosa rimane di questa libertà quando le cose vanno male e si è in ginocchio? Rimane la solitudine nichilista e distruttiva di un Luigi Preiti, che risolve la propria deriva spirituale e sociale con un gesto orribile, di disperata cattiveria.
Dobbiamo assolutamente uscire da questa crisi sociale e culturale, e dobbiamo farlo guardando alla tradizione, alla cultura, alla nostra storia sociale e famigliare – non è scritto da nessuna parte che un Paese povero debba diventare un Paese violento. La deriva nichilista del superuomo di massa, al contrario, renderà irriconoscibile il nostro Paese. E che sia chiaro: si può anche decidere di smantellare l’Italia con questo nichilismo di massa, con l’incultura spavalda, con le finte comunità autistiche del web, ma poi si eviti di piangere quando l’assurdo irrompe sulle nostre scene.
*pubblicato sull’Unità di oggi