Gli attentati di Bruxelles e Parigi sono attacchi all’Europa: ma siamo sicuri di sentirci veramente sotto attacco, di partecipare davvero a quel dolore? Le reazioni collettive fotocopia a questi due eventi denotano piuttosto una mancanza di reale empatia e la volontà di seppellire la componente tragica sotto valanghe di retorica.
La cultura cristiana e la società occidentale che ne è figlia basano buona parte della propria elaborazione culturale sulla comprensione o spiegazione del dolore. Se altre culture filosofico-religiose, quelle orientali ad esempio, prendono il dolore come un dato di fatto ineliminabile da accettare semplicemente, la storia del pensiero occidentale prima e specialmente dopo Cristo ha largamente cercato di dare invece un significato al dolore.
L’elaborazione o la traduzione del “messaggio del dolore” è così stata centrale nella storia filosofica degli ultimi secoli. Essendo il dolore una condizione limitante estremamente concreta e immanente, la sua traduzione ha solitamente richiesto un richiamo ad altro che la realtà materiale, ad una trascendenza oltre la contingenza: il dolore come strumento di Dio e per Dio, religiosamente, oppure laicamente il dolore come insegnamento che “in futuro” e “altrove” ci sarà utile.
Cosa accade però in una società come la nostra, che rifiuta la trascendenza, sia religioso-misitica che “progettuale”, a favore dell’immanenza, dell’attualità, del qui-ora? Questa società non sa più efficacemente accettare o spiegare il dolore. Non lo sa elaborare, perché ciò richiederebbe una forte volontà culturale o almeno una scelta filosofica: ma se sono abituato ad avere una spiegazione superficiale e prêt-à-porter a tutto, ciò che è troppo complesso semplicemente viene rimosso.
I gessetti, i fiori, le cantilene di cordoglio e le dichiarazioni della politica sono l’esorcismo di rimozione del dolore codificato dalla contemporanea società del nulla. Compongono una sequenza ormai quasi istituzionalizzata che mira a coprire un evento traumatico e “inspiegabile” come la morte di decine di persone in un attentato. Si tratta di una distrazione dal senso intimo che tale evento ha, anzitutto sul piano storico.
Sfuggendoci il senso e la dimensione di questo dolore, manchiamo di reale empatia e immedesimazione e non riusciamo perciò a vivere personalmente questo evento, né a comprendere che è un attacco diretto proprio a noi individualmente; le vittime non sono militari schierati in una guerra, ma persone colpite per la colpa di lavorare in una città europea o di frequentare un aeroporto europeo. Se qualcuno dichiarasse di voler uccidere tutti quelli che abitano nel nostro condominio o che hanno il nostro cognome, non ci sentiremmo coinvolti?
La mancanza di elaborazione e personalizzazione di questo dolore collettivo fa sì che il nostro coinvolgimento sia al massimo estetico e politico: commentiamo le dichiarazioni, condividiamo interviste strappalacrime e bandierine, sottoscriviamo questa o quella analisi, partecipando a nostra volta all’esorcismo di rimozione della intima componente carnale, violenta, personale degli attentati. E la mancanza di empatia fa venir meno un vero coinvolgimento collettivo.
Non ha molto senso allora dire di essere in guerra, se una guerra richiede un “noi” e un “loro” e il nostro “noi” in realtà non esiste. Noi chi? Noi francesi, noi belgi, noi europei, noi cristiani, noi laici, noi chi? Nella società del nulla e della negazione a morire sono sempre e solo gli altri; e i funerali, che pure dovrebbero servire ai vivi per riflettere, restano inutili parate di retorica e rimozione.