![Viareggio, il Monumento ai Caduti scolpito da Rambelli](https://www.barbadillo.it/wp-content/uploads/2016/02/12525557_940563432665052_5201592210431449865_o-310x182.jpg)
21 febbraio 1886. Domenico Rambelli nasce a Pieve del Ponte, alla periferia di Faenza.
Fin da bambino modellò statuette utilizzando la creta del fiume Senio. Modellare la forma con altri mezzi (pietra, legno, ferro) fu ancora la sua scelta di adolescente, crescendo in botteghe artigiane. Poi fu la volta degli studi seri, la Scuola d’Arti e Mestieri di Faenza, sotto la guida dell’amico pittore Antonio Berti, la Scuola di nudo a Firenze, città nella quale frequentò e divenne amico di Giovanni Costetti e altri artisti. Quindi l’apprezzamento per le prime mostre dove espose opere destinate alla fama, come il bronzo de “L’uomo malato” e il “Ritratto di Antonio Berti” presentato alla Biennale d’arte di Milano del 1906.
Poi la vita a Parigi, frequentando l’atelier di Bourdelle dove acquisì alcune caratteristiche estetiche che fuse nella sua arte, e dove fece la conoscenza di altri grandi, Auguste Rodin, Aristide Maillol.
Nella Prima guerra mondiale fu ferito in combattimento. I ricordi del fronte saranno cristallizzati nei monumenti che usciranno dalle sue mani come quello ai Caduti di Vicenza e il famosissimo capolavoro ai Caduti di Viareggio, esaltato da Lorenzo Viani. – al punto da confonderlo come coautore. Nella Viareggio degli anni Venti tra osterie e luoghi d’arte si svilupparono amicizie e sodalizi artistici destinati a durare nel tempo; uno di questi si formò appunto attorno a Lorenzo Viani e a Domenico Rambelli; ne facevano parte anche altri artisti destinati la lasciare segni importanti con le loro opere come Plinio Nomellini, Galileo Chini e Giulio Francesconi. Pittori, scultori, ceramisti, vetrinisti. Un concentrato di bellezza in una città oggi nota solo come spiaggia e divertimenti.
Di quel periodo, di Rambelli anche la statua a Francesco Baracca, nella piazza di Lugo di Romagna, città natale dell’asso della Prima guerra mondiale caduto sul Montello.
Fu Margherita Sarfatti, critica del “Popolo d’Italia” a segnalare l’arte di Rambelli dalle pagine culturali del quotidiano. Un giovane artista che dal dopoguerra si stava dedicando anche all’insegnamento nella Scuola di Ceramica a Faenza. Se il quotidiano del PNF tramite la Sarfatti contribuì alla notorietà di Rambelli, il capo del fascismo in persona attribuiva un ruolo nell’estetica della sua rivoluzione, ad un gruppo di artisti che per varie ragioni sentiva vicini anche alla sua terra: Adolfo Wildt, Arturo Dazzi, Arturo Martini, Mario Sironi e appunto, Rambelli nell’opera dei quali vedeva “l’autentica, totale partecipazione alla cultura della rivoluzione”.
Nel 1932 suoi lavori furono esposti alla Mostra per il Decennale della Rivoluzione fascista.
Segnalava giustamente il critico d’arte Luigi Tallarico che nella scelta dell'”osservazione della vita dei più semplici” fatta da Rambelli, ci fu il suo legame profondo con il fascismo italiano, ricambiato: “questo stile che viene premiato e scelto dal regime, anche se è questo stile che non concede al regime archi di trionfo o liturgie celebratorie. Perché Rambelli non è un esecutore di commesse pubbliche. Come Sironi, crede ed è partecipe delle costruzioni del regime e delle sue vittorie, ma anche e soprattutto degli eventi drammatici che ben presto sconvolgeranno con l’Italia e l’Europa, la sua stessa esistenza”.
Sì perché per Rambelli, l’ultimo scorcio della tragedia italiana, quello tra 1943 e 1945, segnò la sua sorte di artista, avendo scelto la parte sbagliata.
E rischiò di segnare anche la sua fine fisica visto che vide da vicino anche lo spettro della fucilazione.
Aveva aderito alla RSI e vissuta l’esperienza repubblicana a Bologna. Nei mesi successivi alla fine della guerra, mentre passeggiava in centro, in via Zamboni, assieme all’amico pittore (comunista) Aldo Borgonzoni, all’improvviso si fermò un’auto dalla quale scesero due partigiani che pretesero di portare con loro lo scultore.
Narrerà Borgonzoni: “Puntando l’indice, il primo di questi urlò: ‘Lei, con la barba, è il prof. Rambelli’. Il secondo aggiunse perentorio ‘Venga a Faenza con noi, lei, come artista di regime e repubblichino, è stato condannato a morte’. Dichiarandomi comunista ed in assenza di loro documenti attestanti qualsiasi forma di processo, pretesi che i partigiani telefonassero immediatamente alla federazione bolognese del partito. Qui raccontai al dirigente del partito Meloni l’accaduto, e nonostante le rimostranze dei partigiani romagnoli, questi concluse: ‘Voi sbagliate nell’affermare che Domenico Rambelli è stato condannato a morte, non esistono documenti al proposito'”.
Grazie all’amico comunista, Rambelli si salvò, ma la sua la sua vita di artista fu comunque segnata da quella scelta di campo, finendo come tanti altri, emarginato e le sue opere nelle piazze spesso messe a rischio rimozione.
Del resto, la distruzione delle opere di un artista è più pesante della uccisione dello stesso e a Rambelli non fu risparmiata: a Roma la “liberazione” delle sue opere avvenne nel suo studio di via Maria Adelaide, distrutte gettandole dalla finestra; a Faenza la replica nell’altro suo studio: non solo sculture ma anche bozzetti, disegni, pastelli. Tra le tante opere frantumate, bruciate e buttate al vento, anche una “Piccola Susanna” che aveva trionfato alla XII Biennale di Venezia.
Distrutta buona parte della sua opera artistica, nel dopoguerra Rambelli riprese ad insegnare (lo aveva già fatto da dopo la Prima guerra mondiale fino al 1944), lo fece a Roma, all’Accademia, come docente di Nudo.
Lavorò meno alla scultura, forse segnato nell’animo dalla furia iconoclasta che aveva visto la triste fine dei suoi lavori.
Negli ultimi anni lavorò ad una statua di Alfredo Oriani, alla tomba del musicista Balilla Petrella (a Lugo) e alla decorazione della cappella di San Francesco nella Basilica di Sant’Eugenio a Roma. Si dedicò anche alla poesia e nel 1968 i suoi versi furono presenti alla I Mostra nazionale di poesia al Palazzo delle Esposizioni a Roma, assieme a quelli di Quasimodo, di Montale, di Ungaretti, di Cardarelli.
Morì a Roma nel 1972.
Un critico estimatore di Rambelli è da sempre Vittorio Sgarbi che conduce una lotta senza speranza contro l’ignoranza. Segnalando nel 1986 l’assenza di Rambelli nella “Nuova enciclopedia dell’arte Garzanti”, fu accontentato ma….. il nome di Rambelli fu storpiato, da Domenico ad Amilcare!
Eppure – rilevò Sgarbi – la rimozione censoria non trova spiegazione se non nella scelta di vita politica di Rambelli perché “nulla di fascista, di retorico, di eroico c’è in Rambelli; e invece uno spirito di sperimentazione e di innovazione che concorre con i più profondi creatori del secolo: con Constantin Brancusi, con Mario Sironi, con Giorgio De Chirico, con Alberto Giacometti, e perifino con Francis Bacon. Rambelli propone un’immagine sintetica, intimamente antiretorica”.
Niente da fare, Rambelli è destinato ad essere ignorato per la sua adesione all’ultimo fascismo, eppure si dovrebbe guardare alla sua opera, invece no, ci si mette una pietra tombale sopra, lo si epura anche dalla storia dell’arte.
Insiste Sgarbi: “… amandolo in modo specialissimo e ricordandolo appena me ne si offre l’occasione, Domenico Rambelli il più grande, il più originale, il più potente e il più vitale scultore del Novecento italiano. Potrà sembrare un’eresia, per chi coltiva, a ragione, la venerata memoria di Arturo Martini, di Marino Marini, di Libero Andreotti (tutti grandissimi); ma Rambelli può stare a buon diritto al loro fianco, e con una energia di invenzione, con una forza di deformazione che non hanno paragone”.
Eppure anche altri hanno attribuito a Rambelli l’essere stato uno dei maggiori scultori del Novecento italiano, l’hanno fatto Ragghianti e Barilli. Ma tutto inutilmente, Rambelli è punito dalla censura del pensiero che copre con il silenzio la sua pruderie. (dal gruppo Effemeridi del Giorno)