Di fronte al gap demografico, denunciato dall’Istat, l’aspetto più preoccupante, perfino al di là dei numeri (in Italia,nel 2015, i morti sono stati 653.000 contro 488.000 nascite) è la disattenzione politica e culturale intorno a quella che si preannuncia (e di fatto è già) come una vera e propria catastrofe nazionale.
Che cosa ci dicono infatti i numeri ? Non solo che in Italia si nasce di meno ma che si muore di più; che, rispetto al 2014, si contano 15.000 culle vuote in più ma anche 54.000 bare in più; che il tasso di natalità è ridotto al lumicino ma anche che il picco dei decessi è sintomo dell’invecchiamento della popolazione e quindi della sua sostanziale fragilità.
Eppure che l’Italia si stia spegnendo non sembra interessare a molti. Men che meno a chi dovrebbe tenere alta l’attenzione, ipotizzando certamente possibili vie d’uscita ma denunciando soprattutto il rischio che l’edificio nazionale collassi e che il gap demografico porti all’erosione dell’impianto sociale.
Manca la coscienza intorno a questi problemi e manca evidentemente la “scienza”. L’impressione è che si abbia paura che la demografia, scienza deputata allo studio quantitativo e qualitativo della popolazione, faccia il suo dovere, produca analisi e magari allarme sociale, indichi rischi e priorità. Fa paura, in questo mondo di “illuminati”, che questa disciplina svolga il suo compito, che è quello di coniugare fattori naturalistici e metodo statistico, caratteristiche strutturali della popolazione (età, sesso, stato civile) e fattori extrademografici (professione, attività economica, reddito, residenza). Fa paura parlare di natalità e di fecondità, di maternità e di infanzia, termini desueti che sono però alla base dell’equilibrio demografico. Fa paura parlare di vita e quindi di avvenire della Nazione.
Tutto questo insieme di problematiche, scientificamente analizzate e collocate, farebbe emergere l’inesistenza, in Italia, di politiche per la famiglia e la natalità, con i risultati che vediamo. Non è solo una questione di “numeri”, in gioco c’è la possibilità di guardare alla nostra realtà nazionale con una visione lunga, di crescita, di scommessa sul futuro, di “progetto”. La vita la si spegne sul nascere. La genitorialità appare un peso. Tutto è lasciato alla “buona volontà” delle famiglie, sempre più precarie, incerte nei bilanci e nella consapevolezza di un ruolo essenziale per l’intera società.
Non basta allora evocare, come avviene ad ogni “Rapporto Istat”, incentivi, sconti fiscali, tutele familiari. La partita è ben più grande. In gioco c’è la salvaguardia della nostra esistenza nazionale. Quindi della nostra possibilità di tornare a crescere economicamente, socialmente e spiritualmente. Mai come in questo ambito etica e socialità sono strettamente collegate. Non esserne consapevoli vuole dire essere condannati ad una precarietà di massa, sterile e senza avvenire.