Nemico della mediocrità e strenuo avversario della banalità, Fulvio Abbate è il cavaliere aristocratico che sbeffeggia, affetta e trafigge luoghi comuni, tic, sciocchezze e beghinerie di quella che continua a definirsi la Cultura, in Italia e fuori.
Libertario e uomo libero, e ancora non si circoscrive del tutto un personaggio che sa essere ovunque senza snaturarsi, senza cedere a piccoli o grandi compromessi. Da qualche tempo, in Francia, è uscito il libro della vedova Wolinski sulla morte del grandissimo Georges nell’eccidio di Parigi alla redazione di Charlie Hebdo. E un vespaio di polemiche, grandi e piccole, ha accompagnato la stroncatura che ne ha fatto.
Il Marchese Fulvio Abbate ha stroncato, senz’appello, il libro che la vedova di Georges Wolinski, Maryse, ha scritto sulla morte del marito nell’attentato a Charlie Hebdo del gennaio dello scorso anno. Perchè?
Molto semplicemente, Wolinski fa parte della mia formazione, diciamo pure letteraria e politica. Wolinski era più che un semplice fumettista, era un narratore per immagini disegnate. Una personalità che tutto poteva essere men che conformista. Mi sembra invece che la moglie, modesta scrittrice peraltro, rappresenti in pieno il compiacimento di tutti i luoghi comuni della borghesia parigina di sinistra.
In che senso? In quali luoghi comuni inciampa “Chérie, je vais à Charlie”?
La posizione culturale più forte che si evince dal libro è il suo viso modellato dalla chirugia plastica, una cosa di una banalità assoluta. Certo, uno è libero di esser banale, ma lo si è un po’ meno se sei stata la compagna di Georges Wolinski. Probabilmente, da lui, non hai imparato quasi nulla, se non il piacere per la mondanità, con la differenza che Wolinski restava Wolinski anche a Saint-Tropez. La sinistra parigina del Quartiere Latino non dà assolutamente l’idea di eversione ma piuttosto restituisce l’idea del voucher pronto per le vacanze all’isola di Mustique. Quindi un’inconsistenza assoluta. Questa è la percezione che mi suggerisce questo libro che sto finendo di leggere. Oltre al racconto dell’attesa di conoscere la sorte del marito la mattina dell’attentato a Charlie Hebdo, nei miei occhi non va oltre la percezione della tintura biondo acceso e della chirurgia plastica che la signora ostenta nel risvolto di copertina.
Cosa deve il Marchese Fulvio Abbate a Georges Wolinski?
Wolinski mi ha insegnato a ridere e a riflettere su sesso, politica, sinistra e rivoluzione, su tutti i luoghi comuni delle società contemporanee. Affluenti e non. È la persona a cui devo il simbolo del mio movimento, Situazionismo e libertà. Ogni volta che negli ultimi anni andavo a Parigi era soprattutto per incontrare lui, in rete due filmati uno dei quali diventato una sorta di testamento.
Qual è il suo lascito?
Mi disse: “In Francia non crediamo alle menzogne delle religioni” E poi raccontò che lì la satira ha conquistato, attraverso le proprie battaglie, la libertà di poter fare tutto ciò che meglio crede. Dopodiché citando Pasolini – che apre un suo film apre con una citazione tratta dall’intervista a Mao Tse Tung di Edgar Snow autore di Stella Rossa sulla Cina “Dove va l’umanità? Boh?” – chiesi anche a lui: dove va l’umanità? E lui: l’avenir c’est la mort.
Sentenza vitalista o da pessimista?
No, era la frase detta da chi che nel 2009 aveva 74 anni. Perciò da una persona che si sentiva nell’ultimo tratto del percorso della sua vita. E che racconta la fine di un mondo di grande libertà, quello di Charlie Hebdo e Harakiri, momentidi grandissima vitalità artistica, politica, culturale, esistenziale. La satira francese piscia in testa a tutti, comunisti, fascisti, femministe, religiosi, handicappati. Non ha il problema di dover essere una satira organica come quella italiana.
La satira italiana tira l’acqua al suo mulino?
Staino, sull’Unità, fa satira organica al Pd, idem ElleKappa su Repubblica e non dovrebbe essere così. Quando ci fu la polemica su Sergio Forattini, che su Repubblica venne attaccato perché alcuni ritenevano inaccettabile la presenza su quel giornale di un signore diventato “di destra”, personalmente ho sostenuto che andasse invece preservata la sua libertà di poter ironizzare, la sua libertà di ironizzare sulla sinistra su un giornale di sinistra. Satira deve avere un salvacondotto particolare, deve poter pisciare in testa, lo ripeto, pure agli handicappati. Come in Francia faceva Harakiri.
E perché invece in Italia non succede?
Non accade, da una parte in Italia non esiste una cultura laica e repubblicana come in Francia. Semplicemente, non abbiamo avuto mai una rivoluzione, il modello culturale principale italiano è di tipo clericale. Poi si è avuto il fascismo, quindi una certa egemonia comunista che poneva il primato, anzi la signoria, della politica sulla cultura e quindi anche sulla satira. Ma soprattutto in Italia non è stata mai tagliata la testa a nessun re. Noi ci possiamo vantare solo di Gaetano Bresci, anarchico venuto dall’America che prese a pistolettate re Umberto I per vendicare i morti delle cannonate di Bava Beccaris nel 1900. Però resta un po’ poco rispetto a quanto avvenuto in Francia che ha donato al mondo le rivoluzioni del 1789, del 1848, e quella del 1871, la Comune di Parigi.
Se la Francia ha questo retroterra e tali tradizioni, perché oggi la signora Wolinski scrive banalità radical chic sul defunto marito?
La ragione mi pare semplice da rintracciare nei limiti personali e intellettuali della signora Wolinski che non riesce ad eguagliare lo spessore del marito. Sembra non aver appreso nulla da lui. Fa un suo racconto sentimentale e, per quanto le possano mancare baci e abbracci del marito, ciò lo potrebbe dire e scrivere qualsiasi squinzia rimasta vedova. E poi va detto che ciò accade pure perché un certo ceto intellettuale francese, venuto dal ’68, da un certo momento in poi si è fatto accademia snob da brasserie.
Grande talento, è stato il coltello svizzero multiuso della cultura italiana. Ha capito prima d’altri l’importanza del fumetto e oggettivamente era una grande intelligenza come si è visto nel suo libri migliori che non sono certo i romanzi ma “Diario Minimo” dove spiega con grande ironia la mediocrità di Mike Bongiorno oppure le recensioni della Bibbia. I romanzi, soprattutto Il nome della Rosa, son in qualche modo dei suoi divertissement. La neo-avanguardia italiana è tutta in quel capolavoro artificiale che mette insieme il genere gotico e poliziesco, la curiosità per la filosofia sapienziale del Medioevo e l’enigmistica.
Cosa ha rappresentato per la cultura italiana?
Nel 1977 ricordo a Bologna, sui muri della facoltà del Dams, di cui Eco era stato creatore e responsabile unico, c’era scritto Umberto Ego. Gli studenti, gli stessi che contestavano Lama, lo attaccavano con ironia implacabile. D’altronde In quegli anni non esisteva la soggezione culturale. Quella generazione lì, che poi è la mia, aveva con chiarezza capito il suo destino che le sarebbe spettato, ossia la precarietà, come già nel motto punk No dream No future, e allora “non rompeteci il cazzo con i vostri discorsi, con la vostra prosopopea”. Quella è stata una grande consapevolezza. Nella mia generazione pochissimi si sono salvati. Molti sono finiti a fare i professori, a trasferirsi da Palermo a Concorda Sagittaria perché lì c’era la cattedra disponibile. Oggi non c’è manco quello. In definitiva, del circoletto semiologico o di Tommaso d’Aquino, a quei ragazzi, importava ben poco.
@barbadilloit