Addio a Piero Buscaroli, giornalista, scrittore, figlio di una tradizione nella quale più delle parole, conta lo stile. Non fu mai cittadino della Repubblica del pensiero unico.
Nato a Imola (Bologna) il 21 agosto, è stato un insigne musicologo. Laureato in Storia del diritto italiano. Nel 1955, Leo Longanesi lo chiamò al Borghese, dove si occupò di «musica e guerre». Dopo aver lasciato il giornalismo politico, insegnò nei Conservatori di Torino, Venezia e Bologna e si occupò di critica musicale per “Il Giornale” di Indro Montanelli. E’ scomparso ieri a Bologna.
Imperdibili i libri: La stanza della musica (1976), Bach (1985), Paesaggio con rovine (1989), La morte di Mozart (1996) e un monumentale Beethoven edito da Rizzoli nel 2004. Nel 2010 pubblica Dalla parte dei vinti. Memorie e verità del mio Novecento e nel 2013 Una nazione in coma. Leggendaria asprezza di carattere.
Della sua vita avventurosa ricordiamo questo passaggio: «Ho cercato di fare tutto il male possibile ai miei nemici. Sono stato uno dei migliori agenti dei servizi segreti tedeschi, spagnoli, portoghesi e giapponesi. Senza prendere soldi, solo per odio verso l’altra parte. Ma mi sono anche gratuitamente divertito».
Su Buscaroli
«È un genio. I suoi molti libri procurano imparzialmente diletto e insegnamento a destra come a sinistra. Il suo comportamento (per es., la sua campagna contro le recchie, o arrusi, fece perdere molti voti ad An, partito nel quale militava alle elezioni europee) procura oggettivo vantaggio alla sinistra. Odia gli amici» (Pietrangelo Buttafuoco).
«Si compiace di sottolineare il suo essere un “bastian contrario”, un “solitario”, un controcorrente. Ciò è fondamentalmente vero, anche se certe cose vanno dette una volta sola. Ma si può e si deve capirlo. Colui ch’è diventato il più venduto, essendo il meno ruffiano, tra gli scrittori italiani di cose musicali, colui ch’era vietato persino citare e adesso è titolare di pareri storici autorevoli e imprescindibili, è davvero un caso a sé. Il primo dei suoi monumentali volumi, il Bach, venne pubblicato dalla Mondadori quasi controvoglia, venne ignorato dalla critica giornalistica e da quella specializzata, e il successo d’un volume di 1.500 pagine esplose in mano all’editore che non sapeva come accettarlo. La formula del libro era inedita, nella mescolanza di biografia rigorosissima e critica che s’inseguivano e chiarivano reciprocamente, mentre possenti squarci si riaprivano sul passato o anticipavano il futuro della narrazione. L’Autore godeva fama di reazionario: si sarebbe dunque aspettata l’immagine di un Bach più che mai inteso alla metafisica e attratto dalla liturgia in contrasto col “mondo”. Ne esce una personalità demonica dominata da una volontà di potenza quale pochi artisti possedettero. Buscaroli non è un “musicologo” professionista. È un vero storico, possiede quindi profondità e ampiezza di visione che all’altro manca quasi sempre; e ha una cultura generale, una conoscenza del mondo classico, una preparazione specialistica sull’arte figurativa e l’iconologia che pochi possono vantare. Eppure non lavora costruendo il “grande affresco”, metodo che ti rende inevitabile il grande, talora il fatale, errore. Con pazienza rabbiosa rilegge le sterminate fonti» (Paolo Isotta).
Buscaroli definì così Gianfranco Fini: “Sei proprio un maiale e via della Scrofa è l’indirizzo più adatto per te (…) Ti maledico a nome dei morti e dei vivi (…) Ti aspetto seduto sulla riva, ti aspetto ad ogni passaggio, di vergogna in vergogna, di sconfitta in sconfitta. In fondo alla tua casa c’è tutta la merda che meriti”. [Lo Stato, 13/1/1998]
Prefigurava «la fine del popolo italiano. Non è degno di sopravvivere. La sconfitta della dittatura ha portato alla guerra permanente e alla tirannia del denaro che sta facendo morire la civiltà. Io credo che l’Occidente entro 20 anni sarà finito» (Il Giornale)
Simpatizzò per il Caroccio: «La Lega è l’unica salvezza. Può spazzare via la classe dirigente tarlata che ci tiriamo appresso da decenni. Io non voto, sia chiaro. Ma ieri sera a Otto e mezzo su La7 era ospite Roberto Cota. Be’, ho visto una persona diversa, ho ascoltato un modo di ragionare nuovo. È stata una frustata. In quell’uomo parlava un’autenticità che non riscontro in nessun altro politico» .