Esistono quelli di John Field, votati alla contemplazione dell’oscurità e carezzevoli in un inno alla luna. Accadono quelli di Fryderyk Franciszek Chopin, note di una notte tutta di malinconia e contrizione. Geni romantici suonano pentagrammi di spleen. Avvengono quelli di Bonaventura, un romanzo misterioso e oscuro nella lotta allo straripare ininterrotto della vacuità. Capitano poi “I Notturni” (edizioni Settimo Sigillo), undici per la precisione che, attraverso ballate, canti e racconti, esplorano la notte come sentinelle di un tempo oltremodo dilatato e sospeso. Tra una narrazione onirica e una favola dal sapore antico, l’immersione fantastica si perde in sogni, visioni e ricordi. Ogni autore è un viaggio arcano nelle profondità della parola, quella voce che prende vita solo al termine della luce. Pennellate di miraggi tirano il lettore all’interno di un altrove dove tutto può accadere.
È l’incontro con l’inchiostro gocciolante e frammentato, proprio del linguaggio onirico. L’appuntamento imprescindibile con un orologio senza tempo di bergmaniana memoria, un remoto “posto delle fragole”, rimandi di un sogno nel sogno, visioni di un’impossibilità: l’assurdità di un grido a labbra serrate. È la percezione di due presenze: Alma Maher e Oskar Kokoschka, gli amanti. In un linguaggio simultaneo, la scossa è tutta in un’affermazione: “Non sono io che scrivo parole, sono le parole che scrivono me”. È il sogno notturno di Miro Renzaglia. Con vitalità, il convoglio approda dentro il cuore pulsante di una Parigi inquieta, figlia e madre dell’arte, tutta in una statua. È una città dinamica, archetipo del sogno che si realizza, errante e futurista. Una ballata da leggere in velocità, un treno in corsa da perdere per poi riprendere. È “il canto notturno di un futurista errante”, la solerzia funanbolesca della penna di Graziano Cecchini.
È un viaggio al termine del Kosovo quello di Roberta Di Casimirro. Tra (céliniani) puntini e fervide promesse sigillate con la notte, il suo è un peregrinare nel buio della storia. Uno sguardo intimo su quel che è stato e quel che resta. Un’occasione di riflessione su quella presunzione primogenita del pregiudizio. Un’avventura nel brivido di un percorso solitario e coraggioso. Una donna, persa nel momento e ricongiunta nel tempo, nell’oscurità – anche quella del grembo materno – non manca di farsi sentire nel più imperativo dei proclami: sono femmina! Quanta vitalità nelle tenebre degli eroi anonimi, oblio che fa di un metronotte, un filosofo con i pedali alati. Una bicicletta, l’attrezzo magico che sventa rapine per poi scomparire nell’alba dell’ordinario. Il guardiano della città che dorme; notti che incontrano altre notti: creature inghiottite dal giorno. La luce è trincea altrui. Un filosofo con il coraggio in crescendo è tutto nella scrittura di Giorgio Ballario. In lontananza si ode un canto fragoroso e metropolitano. Suoni contemporanei muovono al dio Pan. La notte tutto acuisce, è il ritmo di un inno alla follia e alla paura. Melodia che nell’atto di leggere, ti sorprende in musica. È la ballata odierna di Daniele Mattia Coresi.
La notte di Mario Michele Merlino è il momento potente del ricordo. Nella disfatta degli altri che furono “noi”, nell’oscurità dell’ideale, si concretizza un atipico Giacomo Leopardi. Il poeta del pessimismo per alcuni, si fa idea di speranza per altri. I versi si mescolano a una strofa “Le donne non ci vogliono più”, melodia incredula per Arrigo. Non crede, non vuole credere, si vota all’auspicio con il poeta nel pastrano. La paura si fa reale, il desiderio di vita e di amore è ora in quell’altrove dove tutto resta eterno. Nella veglia onirica di Gabriele Marconi, emerge il fantasma di una donna magnetica, incanto potente nel battito di ciglia di un piacevole inganno. È la leggenda che si perde nel sogno di una remota cornice romana. Bella, bellissima, di nero e di pizzo vestita è la “Papessa”. Un fantasma che si fa desiderio e passione. La veglia si smarrisce nella volta oscura e le tenebre acquistano il potere di rendere reale la più fiabesca delle illusioni. Il buio è anche e soprattutto la dimora e il conforto della creatura notturna per eccellenza: il vampiro. Nella ferocia, la tristezza: brandire vita per perdurare in un’esistenza nascosta. La morte per l’afflato vitale, negli occhi malinconici di un essere incantevole. Danza nel crepuscolo sulle note di una payada, la cornice in un arrabal asfaltato di belle di notte. Forzata all’oblio, all’isolamento continuato e all’assenza di amore, la fugacità di uno sguardo si fa bagliore di incontro nel quale un uomo e una donna si dissolvono. L’istante di amore che vale un’eternità nell’espressione di Susanna Dolci.
È un viaggio attraverso il tempo quello di Luca Leonello Rimbotti . Il principio nel cuore del “Sintomo dell’universo”, la spinta in mezzo ai secoli. Lo sbarco è nella terra dei coreuti lunari: forieri di versi occhieggiano alla bellezza. Lord Byron, Faust e il Poeta squadrista si avvicendano alla maniera di un coro greco. Nella caduta si innalzano per mano di un’ode che si alimenta nell’ode. È un ululato alla bellezza che non può trattenersi. Un imperativo di Yukio Mishima fatto versi: “Non è consentito sapere e conservare la bellezza”. Non si ferma il bello, ma si condanna la bruttura nella forma più insana dell’ipocrisia. Sono eroi solitari, uomini d’azione che sprezzano la fissità della convenzione. Avviluppati in versi d’amore e dolore, nell’ espressione di un poeta come testimone del tempo sospeso. “Devi capire Efisio” è il mantra che tinge di nero la notte che si fa giorno in un tempo circolare nel racconto di Augusto Grandi. Tutto è oscurità in un’Italia sorda all’italiano. Nella globalizzazione il nemico alla tradizione, l’antitesi all’italianità antica e solenne. Il lavoro, la famiglia e la dimora figurano come equilibri passeggeri e revocabili in qualsiasi momento. Anche nelle tenebre più scure, un baleno si fa sospensione di dolore. “Devi capire Efisio”, devi comprendere che ogni Efisio richiama una Lilla, il calore di un sentimento che rende due creature eroine di un tempo inospitale. Come sonnambuli si perdono nell’asfalto di una città fredda: l’umanità è lontana, ma non per sempre. È Davide Sabatini a riportarci nel passato più recente, per grazia di un trionfo musicale. Quante volte l’abbiamo riascoltata in questi ultimi periodi; la morte dell’artista ma non della sua arte: Heroes. Il brano guida di un racconto per immagini, un grido disperato nella fotografia umana di due ragazzi divisi da un muro e uniti da quel sentimento fortemente misterioso che tutto sbaraglia: l’amore. È il periodo berlinese del Duca bianco, lo snodo in una scrittura che festeggia la musica. L’attraversamento di città bukowskiane che nell’assenza, bruciano l’individuo e lo ingoiano in una voragine iperbolica. La salvezza sulle note di Iggy Pop e Nick Cave, dei Dead Can Dance e i Joy Division, sino al definitivo: Heroes.
La luce si affievolisce, un soliloquio scorre nell’altro e un libro si offre al respiro della notte.
* “I notturni” (pp. 140, Settimo Sigillo, 12 euro), curato da Susanna Dolci, con la prefazione di Sandro Giovannini, la postfazione di Lewis Stavion e la grafica di Allegra Condorelli; e con testi di Graziano Cecchini RossoTrevi, Daniele Mattia Coresi, Roberta Di Casimirro, Giorgio Ballario, Augusto Grandi, Gabriele Marconi, Mario Michele Merlino, Miro Renzaglia, Luca Leonello Rimbotti, Davide Sabatini e della stessa Susanna Dolci.