![Nicolas Gomez Davila](https://www.barbadillo.it/wp-content/uploads/2016/02/ezimba18800857510303-310x205.jpg)
Ex occidente lux. La luce di pensiero più netta del Novecento ci viene da Bogotà, da questa selva meticcia di parallelepipedi di cemento, dalla biblioteca di una villa patriarcale dove si è trincerato un uomo che Diogene avrebbe sicuramente riconosciuto per tale, deponendo la sua lanterna: Nicolás Gómez Dávila.
E’ inutile fare i nichilisti, i disperati o i ‘deboli’, in philosophicis, quando ci sono gli Escolios daviliani. Inutile piangere la fine della storia (escogitazione concettosa, dimentica del fatto che non si vive che “per l’istante o per l’eternità – non per la slealtà del tempo”). Assurdo ostentare un relativismo che immediatamente si volge in licenziosità, in capriccio – e serve, anzi, ad aprire la via alla licenziosità e al capriccio. La storia continua a scorrere, ingorgata da traffici e incidenti e illuminata da quei lucignoli che a tratti appaiono. Le verità ci sono, verità di sangue, e sono univoche, nonostante siano cresciute le schiere dei loro nemici (anche se già da due millenni Giovanni lamenta: “e gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce”). La musica delle sfere resta, oltre ogni brusio e rumore di fondo, anche oltre il chiasso petulante della modernità: va solo colta e generosamente chiusa in qualche nota, fissata in una partitura.
“I secoli XVIII e XIX furono l’epoca delle norme giuridiche. Il XX è stato quello delle norme economiche. Un nuovo periodo si profila oggi, nel quale predomineranno le norme biologiche; l’epoca che sta iniziando affronterà conflitti etnici, una crescente pressione demografica e un crescente immiserirsi della specie.” Non è il mondo nostro, con tutte le urgenze nazionalistiche, estetiche, ortogenetiche che ci richiamano al dovere?
Tanta è l’esigenza di nettezza, in Gómez Dávila, di prontezza, di un pensiero radicato nel reale, tanta è la disponibilità a battersi contro l’errare interessato, che la sua scrittura aforistica ha toni quasi intimidatori. A scorrere le pagine degli Escolios, ci si sente continuamente esortati, ammoniti. O confermati, sostenuti, incoraggiati. Quello che non si può fare è svicolare in qualche sofisma ambiguo, come vorrebbe la “razza dell’uomo sfuggente”, che non incontrerà autore più odioso pur nel suo garbo soave. Di fronte alle note daviliane non esiste la possibilità di un controcanto. “Quelli che negano l’esistenza dei ranghi non immaginano con quanta chiarezza si riconosca il loro.”
L’aggettivo ‘illuminante’ è ormai logoro; eppure non ce n’è di più adatti a descrivere questo fare filosofia alla maniera dei presocratici, per baleni, che svela tutte le dinamiche e gli ingredienti dell’“inganno consueto”. Il mondo attuale è un palcoscenico dove corrono “ingratitudine, slealtà, risentimento, rancore”. E invidia: la vera protagonista del dramma, che relega i “decenti” sempre tra i “vinti”.
Il miracolo del pensiero e della scrittura di Gómez Dávila (a parte il fatto di voler trattare di miracoli) è una precisione del sentire così puntuale e potente che immediatamente dilaga nel suo contrario: il celestiale, l’infinito, l’essenziale. Così, il tormento e l’estasi di troppi poeti di sole parole – l’amare – per Gómez Dávila è un’impressione carnale, precisissima quanto è leopardianamente vaga: “amare è sentire la pressione del corpo assente contro il proprio”. Ogni corpo e sangue di innamorato sa che è così (e che se non è così, non è), come ogni cuore e sangue di innamorato della politica sa che “non reclamiamo la libertà per essere liberi, ma per servire degnamente chi dobbiamo servire”. Gómez Dávila è, in fondo, uno specchio.
Non c’è antitesi tra vita e verità, come hanno preteso secoli di pensiero fondato solo sull’“intelligenza dell’intelletto”. Perdere la via della carnalità è per Gómez Dávila un’assurdità in termini estetico-filosofici. “Un gesto, un gesto solo, a volte basta a giustificare l’esistenza del mondo”. Ma pure metafisici, se ci ha rivelato che “per parlare dell’eterno, basta parlare con proprietà delle cose del giorno”. Dovrebbero tenerne conto i letterati non meno dei mistici. La verità è nel reale, lo attraversa, è il miracolo che si schiude nei giorni, in quell’estasi del concreto che è la bellezza, nella “luce di certi occhi”. E perfino la politica non può essere arida precettistica o bizzosa ideologia, quanto un modello da seguire, un uomo esemplare, un “signore vero”. Solo poi, astraendo, la politica diventa “la scienza che definisce le condizioni sociali più propizie alla percezione del valore e alla realizzazione di esso”. E si ricade nella necessità di fecondità, di generare ‘verso l’alto’ – fatti, libri, cose, gesti, uomini, modelli superiori.
Il moderno insorge, con voce stridula: ma che cos’è, che cos’è questo valore? Pacato, sereno, risponde Gómez Dávila: “la verità non si può dimostrare: si può solo mostrare”. Il moderno, allora, sovreccitato, si picca, insiste, pretende la prova. Di nuovo la stoccata: “di ciò che davvero importa non ci sono prove, ma testimoni”.
Il cardine etico che Gómez Dávila riscopre è la lealtà, “la musica più nobile della terra”. La musica più rara di questa terra. La verità di ogni pensiero vivo.